Tratto da:
ANAGARIKA SILANANDA (GEORGES BEX) SAGGEZZA: COME FAR BUON USO DELLE RELIGIONI
REDATTO CON LA COLLABORAZIONE DI MARCELLE SURIYONG TRADUZIONE DI ELISA TAIBI
EDIZIONI ARISTA
Titolo originale dell'opera: La sagesse - Guide pour un bon usage des religions - La Cité éditeur, CH Georges Bex, Lausanne, CH per l'Italia: Edizioni ARISTA s.a.s., Torino
Anagarika Silananda
1. Cenni sulla Dottrina
Dove possiamo trovare il Sole, quando minaccia di piovere e le nubi limitano il nostro sguardo? Proprio dietro quelle nubi brilla il Sole; ma è forse colpa del Sole se non godiamo del suo splendore?
Noi che cerchiamo la Verità, dove possiamo trovarla? Oltre le nubi della nostra ignoranza brilla la Verità. È forse colpa di quest'ultima se ci lamentiamo per la sua assenza?
Possiamo forse trascendere la nostra ignoranza a forza di ragionamenti? Dove trovare la via che conduce all'eliminazione della nostra ignoranza?
Le religioni pretendono di insegnare tale via. Esse insegnano la Verità, in ogni caso la loro Verità.
Ma la Verità non appartiene a una religione piuttosto che a un'altra: la Verità È.
Devo pensare di essere più permeabile a una forma di insegnamento piuttosto che ad un'altra, sicché la mia comprensione è condizionata dal mio stesso condizionamento.
Lo studio del Buddhismo, per me, è stato una rivelazione, una sorta di itinerario da seguire, una forma di saggezza per un buon uso delle religioni, la possibilità, insomma, di affrontare i problemi spirituali.
Il Buddha ci insegna i quattro fondamenti essenziali, ovvero le Quattro Nobili Verità:
- la Nobile Verità della sofferenza;
- la Nobile Verità dell'origine della sofferenza;
- la Nobile Verità della cessazione della sofferenza;
- la Nobile Verità della via che conduce alla cessazione della sofferenza.
La vita è sofferenza e il desiderio è all'origine di tale sofferenza. È questo il problema posto dal Buddha, ma come risolverlo?
Per raggiungere la cessazione della sofferenza è necessario seguire l'ottuplice Sentiero, e questa è la soluzione offertaci dal Buddha.
Ritroviamo questo stesso problema nell'insegnamento del Cristo. Mi riferisco alla meravigliosa parabola del Figliol prodigo (cfr. Luca 15:11) ove, proprio attraverso il desiderio, il giovane giunge ad una forma insopportabile di sofferenza: il ritorno alla casa del padre è, appunto, l'ottuplice Sentiero, e la casa del padre è la cessazione della sofferenza.
È forse meglio seguire una religione che (per svariati motivi) non comprendiamo a fondo, o seguire l'insegnamento dei Grandi Saggi, ricercando nella diversità dei loro messaggi l'identica essenza del loro insegnamento?
I Grandi Saggi sono coloro che hanno portato a termine la loro evoluzione spirituale, diventando così la Verità; così, pur essendo molteplici, essi sono il Medesimo.
Quanto a noi, finché non avremo raggiunto la liberazione totale non potremo dire: «Questo è un Grande Saggio, quello non lo è ancora»; un motivo in più per aprire il nostro spirito al loro insegnamento e seguire quello che comprendiamo meglio.
Qual è lo scopo che i Grandi Saggi si propongono?
Per quanto mi riguarda, si tratta indubbiamente della cessazione della sofferenza.
La cessazione della sofferenza è possibile?
Non è facile rispondere. Consciamente, o inconsciamente, la maggior parte degli esseri umani è alla ricerca di qualcosa: per alcuni si tratta semplicemente di sopravvivere, per altri si tratta di vivere, ovvero di dare un senso alla vita.
Siamo influenzati da un gran numero di fattori: la famiglia, la società, la nazione, gli strumenti finanziari, educativi, culturali, spirituali, ecc., tutti fattori responsabili, in una certa misura, delle nostre idee. Non per questo, però, l'uomo è meno insoddisfatto: se, talvolta, grazie ad un innato buon senso, egli si accontenta della propria sorte, solitamente l'insoddisfazione permane, prova ne sia che egli continua a cercare quel "qualcosa".
È innanzitutto necessario che egli capisca perché la sofferenza è necessaria, per quale motivo è costretto a procedere per tappe successive allo scopo di perseguire la propria evoluzione.
Solo allora potrà vederci più chiaro.
L'animale "essere umano" è diventato uomo quando ha preso coscienza della possibilità di seguire lo stimolo fornito dalla ricerca delle sensazioni-percezioni piacevoli. Nella Bibbia, o secondo la Bibbia, l'essere umano diventa uomo nel momento in cui si ciba del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male: ne risulta una sorta di separazione tra lo Spirito universale e lo spirito dell'uomo. Mentre l'animale obbedisce al suo istinto, che sembra agire secondo leggi naturali, l'essere umano diventato uomo si serve della sua neo- conoscenza del bene e del male. In tal modo, come il Figliol prodigo, L'uomo giunge alla sofferenza: si tratta di una tappa necessaria per garantire la propria evoluzione, giacché da allora in poi, l'uomo constaterà che la vita è sofferenza e dunque cercherà una via di liberazione.
Egli diventa "candidato alla saggezza": cerca, ascolta, confronta, ascolta l'insegnamento dei Grandi Saggi e scopre la via che conduce alla saggezza.
A questo punto comincia l'ascesi, ovvero l'osservazione dei dieci precetti, cioè cercare di:
- non uccidere; - non rubare; - evitare ogni eccesso dei sensi; - non mentire; - evitare bevande alcoliche forti e droghe che confondano la mente; - non essere maldicenti; - non ingiuriare; - evitare la cupidigia; - non adirarsi; - non danneggiare con pensieri, parole o azioni gli esseri che ci circondano.
L'uomo deve sapere che il suo corpo è fatto di terra, d'aria, d'acqua e di calore: questi quattro elementi danno forma alla sua "macchina per pensare e per agire". Per ottenere una vera forma, va tuttavia aggiunto un altro elemento: lo spazio. Se non c'è spazio non c'è forma. Ma la priorità assoluta appartiene allo Spirito universale, che presiede a questi cinque elementi fondamentali, ed è quell'energia che governa i mondi, che regola l'infinitamente grande così come l'infinitamente piccolo, che organizza gli spazi siderali così come la più piccola cellula.
Perché la vera natura dell'uomo dovrebbe essere quella di un corpo in continuo mutamento, piuttosto lo stesso Spirito universale?
Questo Spirito universale non è forse la vera natura di tutto ciò che ha vita?
Perché siamo sulla Terra? Ognuno di noi fornirà una risposta diversa; ma, in generale, il bambino risponderà: «per giocare»; l'adolescente dirà: «per conoscere l'amore, fare sport, studiare»; l'uomo risponderà: «per farsi una famiglia, guadagnarsi da vivere, assicurarsi il futuro». Sono tutte risposte logiche e comuni. Pochi sono i saggi che risponderanno: «per liberarci dalla schiavitù in cui ci ha costretti la nostra stessa mente».
Come liberarci dalla schiavitù in cui ci ha costretti la nostra stessa mente? Essa non si opporrà forse a tutti i nostri tentativi? Non costituirà le proprie difese, non si barricherà dietro tutta una serie di desideri?
Se l'uomo per liberarsi conta solo sulla propria mente colma di elisir di sofferenza è fatica sprecata.
Se l'uomo conta soltanto su un accumulo di esperienze positive e negative è fatica sprecata.
Se l'uomo conta unicamente sui ricordi contenuti nel ricettacolo della propria mente è fatica sprecata.
Da che cosa dobbiamo liberarci? Dai tre veleni, cioè ignoranza, desideri e attaccamento, che formano l'elisir di sofferenza.
Perché ho detto "fatica sprecata"? Perché non si sono ancora realizzate le condizioni per trionfare sulla schiavitù in cui ci ha ridotti la nostra stessa mente e di conseguenza liberarsi è impossibile.
Immaginiamo un composto: il nostro corpo, come abbiamo visto, è un composto. Ora, tutto ciò che è composto viene regolato dalla legge dei mutamenti. Se introduciamo un'impurità in un prodotto composto, essa ne diverrà parte integrante e quando il composto si riprodurrà manterrà al suo interno il fattore inquinante.
Il "candidato alla saggezza" ricorre all'insegnamento dei Grandi Saggi, che è conforme alle leggi della salute spirituale.
Indipendentemente dallo scopo proposto, sia esso il Paradiso o il Nirvana, tale insegnamento mira alla cessazione della sofferenza: proprio questo è il fine ultimo. Le fantasticherie di quanti cercano di visualizzare, o definire, il Paradiso o il Nirvana sono un infantilismo della natura umana.
È importante sapere che siamo responsabili del buono o del cattivo uso che facciamo dell'energia che ci anima e che è la base della vita. Quando diciamo che ne facciamo buon uso, o cattivo uso, che intendiamo per "buono" o "cattivo"? Chi giudicherà? Giudicheremo noi stessi, poiché siamo noi i responsabili; e l'unico modo per sapere è rispondere alla seguente domanda: l'uso della nostra energia ci ha portati alla pace, o all'insoddisfazione?
I nostri tentativi di utilizzare questa energia sono motivati dai nostri desideri, manifestazione della nostra personalità, e ogni qual volta diamo forma ad un nuovo desiderio, la sua effettiva, o mancata, realizzazione determina una modifica della nostra mente. Avendo uno scopo ben preciso, che si tratti di ricchezza, povertà, bontà o cattiveria, ogni desiderio, realizzandosi o meno, origina sofferenza relativa alla ricchezza, alla povertà, alla bontà o alla cattiveria.
Sarebbe ideale giungere alla cessazione totale di ogni desiderio: in questo modo non aggiungeremmo nulla al nostro contenuto mentale, visto che si tratta di modifiche che rendono il nostro io (1) più esigente, e che dunque ci mantengono in stati di sofferenza più o meno grossolani.
Si', il ricco patisce le sofferenze del ricco, il povero le sofferenze del povero, il buono quelle del buono e il cattivo quelle del cattivo.
(1) Quando si parla di io è necessario chiarire una volta per tutte di cosa si tratta. In poche parole, ogni persona, parlando di sé, si serve di questa espressione quando dice: «io penso che», ecc. Un discepolo del Buddha, che ha preso Rifugio e ha ricevuto i Precetti, considera il suo "io" un'entità in continuo mutamento, che può scomparire del tutto. L'espressione «io» rimane comunque un modo pratico per indicare, sul piano del mondo condizionato, di chi si sta parlando.
Fintantoché è ancora in cammino lungo la via della saggezza, l'uomo conosce sempre e ancora la sofferenza; solo il Liberato vi pone fine, anche se questo non significa cessazione di qualsiasi dolore. Chi capisce questo comprenderà perché è al mondo.
L'unica promessa fatta dal Buddha a colui che vuol seguire e vivere la sua Dottrina è di ottenere la pace, e la pace di cui egli parla è davvero ciò che ognuno di noi cerca consciamente o inconsciamente, per vie giuste o sbagliate.
Dice il Buddha: «Ho scoperto la Dottrina suprema, difficile da capire e da percepire, trascendente, che supera la sfera del ragionamento e che solo i saggi possono comprendere.» E aggiunge, altrove, con precisione: «Come l'oceano ha un unico sapore, quello del sale, così la Dottrina che io insegno ha un unico sapore, quello della liberazione.»
Affermazioni simili ci riconducono al cuore del problema: chi non comprende la necessità della liberazione non può comprendere la Dottrina del Buddha.
Liberazione da che cosa? Si tratta ancora una volta di liberarsi dall'ignoranza, dai desideri e dall'attaccamento, cioè dall'elisir di sofferenza.
C'è attaccamento quando un ego si attacca a qualcosa, o a qualcuno. C'è desiderio quando questo ego non è soddisfatto. C'è un ego quando è possibile dire dove esso si trovi. È forse il corpo, le sensazioni, la mente, la coscienza o tutte queste cose messe insieme? In ogni caso, tutto questo è cominciato con la nascita e finirà con la morte, ed è quindi sottoposto all'impermanenza.
Riprendiamo ad esaminare la prima Nobile Verità annunciata dal Buddha: «La vita è sofferenza.»
La nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte, la disperazione, l'angoscia, le insoddisfazioni - e la lista potrebbe continuare - sono tutte sofferenze. Forse noi siamo dei privilegiati, ma cerchiamo di non pensare unicamente a noi stessi: nonostante, o a causa di millenni di sforzi compiuti dall'uomo, constatiamo che la sofferenza ha cambiato volto, ma esiste ancora, in una forma o nell'altra.
La seconda Nobile Verità è l'origine della sofferenza, che consiste nel desiderio; esso è la causa delle rinascite ed assume varie forme: alcune le scopriamo facilmente, altre si insinuano dentro di noi.
Queste prime due Nobili Verità ci danno la diagnosi e l'origine della sofferenza; è quindi la volta della terza e della quarta Nobile Verità, ovvero la prognosi e la cura.
Si può giungere alla cessazione della sofferenza solo attraverso la cessazione totale e definitiva di tutti i desideri. Una volta scomparsi questi ultimi cessa l'attaccamento all'esistenza; con la scomparsa dell'attaccamento all'esistenza viene abolita la nuova nascita e in questo modo scompaiono declino, morte, dolori, angosce, disperazioni, insoddisfazioni.
L'attaccamento, il desiderio e l'illusione egoica sono il combustibile che alimenta il fuoco delle nuove nascite e delle nuove morti, che si succedono senza posa giacché il combustibile non accenna ad esaurirsi.
Finché un albero produce semi, esso si riproduce; affinché non dia più frutti, bisogna distruggerne le radici: non basta tagliare l'erbaccia, bisogna estirparne le radici affinché non possa ricrescere.
Per ottenere questo risultato è necessario seguire l'ottuplice Sentiero, realizzando pienamente il quale ci libereremo dei dieci vincoli che ci tengono legati alla ruota dell'esistenza:
- l'illusione egoica;
- il dubbio;
- l'attaccamento ai riti e alle cerimonie;
- i desideri sensuali;
- la cattiva volontà; - l'attaccamento al mondo delle forme;
- l'attaccamento al mondo senza forma;
- l'orgoglio;
- l'agitazione;
- l'ignoranza.
L'ottuplice Sentiero consiste in otto diramazioni che si influenzano tra loro.
La prima diramazione è la giusta visione, o la giusta comprensione di tutti i problemi che ci si presentano; è necessario capire in che cosa consiste il giusto punto di vista non attraverso tutti i ricordi che abbiamo accumulato dentro di noi (alcuni dei quali sono giusti, mentre altri non lo sono), bensì osservando il problema alla luce delle Quattro Nobili Verità, che sono per noi come la bussola e il sestante per i marinai. Da questa prima diramazione dipendono le altre sette.
La seconda diramazione è il pensiero giusto. Ora, il pensiero può essere giusto solo se è giusta la comprensione, il punto di vista.
La terza diramazione è la parola giusta, che può essere tale solo se giuste sono le prime due diramazioni.
La quarta diramazione è l'azione giusta, che può essere tale solo se lo è anche la comprensione.
La quinta diramazione è il giusto mezzo per vivere, che dipende anch'esso dalla giusta visione delle cose.
La sesta diramazione è lo sforzo giusto: sforzo di evitare, di superare - il che è già più difficile - il male che ha messo radici dentro di noi, sforzo di far avanzare le azioni meritevoli, di svilupparle e di portarle a maturazione. Un'azione meritevole non è una semplice buona azione, in quanto quest'ultima potrebbe avere un fine egoistico. Se invece le nostre azioni sono assolutamente pure, scevre da ogni illusione egoica, da ogni desiderio e da ogni attaccamento, esse ci conducono sulla via della liberazione.
La settima diramazione è la giusta attenzione, unica via, questa, che conduce alla purezza, al superamento del dolore e dell'afflizione, al discernimento, alla liberazione e all'illuminazione. Di che si tratta, su cosa concentreremo la nostra attenzione?
In primo luogo sul nostro corpo: è necessario farsi una chiara idea di ciò che è realmente.
Oggi un corpo nasce, domani un altro muore, scompare. Il nostro corpo, regolato dalla legge del mutamento, dell'impermanenza, non cessa mai, nemmeno per un attimo, di cambiare. Consapevole di ciò, il discepolo non si attacca né al proprio corpo né a un altro ma si limita a curarlo, proprio come si cura uno strumento utile.
In secondo luogo, il discepolo rivolgerà la propria attenzione alle sensazioni piacevoli, spiacevoli o indifferenti che questo suo corpo complesso potrà fargli provare. La stessa sensazione può essere avvertita da ogni individuo in modo diverso: di fronte ad un'opera pittorica, l'artista reagirà diversamente da un comune mortale. Vediamo quindi che le sensazioni variano da persona a persona.
In terzo luogo, l'attenzione sarà rivolta alla nostra mente. Come conoscerla? Poiché sappiamo che è alimentata dalla scelta dei nostri pensieri, attenzione significa conoscere quali sono questi pensieri; e dato che si tratta di ciò che pensiamo in questo preciso momento, prestando attenzione ai pensieri che si susseguono nella nostra mente ognuno di noi può dire: «C'è in me un pensiero di avidità, di collera, un pensiero confuso, un pensiero chiaro, un pensiero nobile. Come l'acqua di un fiume è talora limpida e talora torbida, così è il flusso dei miei pensieri. Devo perciò fare attenzione a scegliere tra i miei pensieri quelli che dovranno alimentare la mia mente.»
È necessario poi prestare attenzione ai diversi ostacoli alla meditazione:
- la cupidigia; - la cattiva volontà; - la pigrizia; - le idee ossessionanti; - i dubbi.
La cupidigia è ovviamente un ostacolo alla serenità; essa consiste nel volersi occupare degli affari altrui trascurando i propri. La cattiva volontà e la pigrizia sono atteggiamenti anti- buddhisti, significano volgere nettamente le spalle al Sentiero ottuplice. Spesso le idee ossessionanti sono tali perché in noi sono presenti molti desideri e molto attaccamento. I dubbi sono la prova di un'insufficiente comprensione della Dottrina.
Si oppongono a questi ostacoli i sette fattori di risveglio:
- l'attenzione; - lo studio della Dottrina; - l'energia; - la gioia; - la tranquillità; - la serenità; - - la concentrazione.
L'ottava diramazione è la giusta concentrazione. L'attenzione richiedeva già una certa concentrazione; si tratta ora dell'ultimo stadio nella tecnica che porta alla liberazione.
«Il discepolo allontanatosi dagli oggetti dei sensi, dagli attaccamenti e dalle cose malsane, raggiunta la tranquillità, entra in una prima fase di contemplazione, accompagnata da pensieri verbali e lavoro di analisi, e in questa fase prova gioia e felicità.
Abbandonando il pensiero verbale e l'analisi, ma mantenendo la stessa disposizione d'animo, colui che medita ottiene il distacco e la quiete della mente; anche in questa seconda fase di contemplazione egli prova gioia e felicità.
Abbandonando gioia e felicità, nelle stesse condizioni, cioè lontano dalle cose malsane, dai desideri e dall'attaccamento, il discepolo ottiene l'equanimità e la serenità: è questa la terza fase di contemplazione.
Abbandonando il piacere e il dolore, egli entra in uno stato che è al di là del piacere e del dolore: è questa la quarta fase di contemplazione.»
Se è facilmente comprensibile che il discepolo che ha rinunciato ai tre veleni (attaccamento, desideri e illusione egoica) ottenga la pace, sappiamo che questa pace non è dovuta né al pensiero verbale né all'analisi. Diciamo semplicemente che il pensiero verbale per chi medita è come il salvagente per chi impara a nuotare.
Nella terza fase di contemplazione il discepolo si rende conto che gioia e felicità sono ancora degli stati condizionati; allora, abbandonandoli, egli giunge alla serenità, ovvero alla Realtà.
Nella quarta fase di contemplazione colui che medita si cura poco di ciò che la vita gli dà, siano pene, piaceri, gioie o dolori; il suo unico obiettivo è realizzare l'unità di tutte le cose.
Per concludere, il Risveglio non consiste in un apporto di conoscenze, né richiede particolari capacità da mettere alla prova; si tratta invece di un processo di purificazione, che deve essere perseguito fino a quando rimarrà solo la nostra vera natura, ovvero la Buddhità.
Seguire il Sentiero ottuplice significa avere un'esatta comprensione di tutti i problemi che ci si presentano, in modo da avere pensieri, parole, azioni e comportamenti giusti.
La nostra comprensione dei problemi, invece, è distorta. Chi, nel praticare la meditazione, ricerca la pace e l'ha provata, anche per un solo istante, sa per certo che questa pace esiste: la sua è una scoperta importante, in quanto egli sa che dietro tutte le preoccupazioni e le insoddisfazioni c'è la pace, proprio come dietro le nubi c'è il Sole.
Un discepolo del Buddha non deve mai dimenticare che deve purificarsi; se finge, non fa altro che ingannare se stesso.
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