Tratto da:
KASTURI
(OTTANTACINQUE ANNI SOTTO L'ATTENTO SGUARDO DEL SIGNORE)
EDIZIONI MILESI
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Giungemmo alla determinazione di trascorrere il resto della vita in quel venerato santuario, che è Prashanti Nilayam: un'atmosfera invitante, vibrante di fraternità, di felicità, di carità, di quell'amore che tutto avvolge, tutto comprende. Eravamo felici d'esser salpati per una terra fresca e calma, e decidemmo di gettarvi l'ancora.
Eravamo una cinquantina di residenti; per i canti del mattino e della sera, si univano a noi circa altri venti visitatori. Certi giorni, i capi dei villaggi limitrofi venivano coi contadini del luogo per sottoporre a Baba le loro controversie e per invocarne una risoluzione, oppure ricorrevano a Lui per una benedizione su qualche nuova impresa commerciale da intraprendere. Gli portavano davanti gli armenti dell'anno, affinché la Sua benedizione ne garantisse una lunga vita e buona salute.
Ricordo un vecchio, che al suo arrivo Baba salutò con un'espressione di caloroso benvenuto. Costui era stato un testimone della fanciullezza di Baba a Puttaparthi, ma in seguito all'impiego del figlio presso gli uffici governativi di Penukonda, si era dovuto allontanare.
La sua devozione, però, era così intensa che, almeno una volta ogni quindici giorni, affrontava un viaggio lungo e faticoso per recarsi alla divina Presenza. Baba conversava per ore con lui sulla disciplina spirituale, sugli eroi e i santi delle sacre epiche, sui luoghi santi, e si informava della sua salute e della felicità di figli e nipoti. Durante i bhajan, da qualunque parte lo scorgesse, si alzava dalla poltrona argentea e andava a sedersi vicino a lui. All'ombra degli alberi del mandir conversavano in atteggiamento molto affabile. Ricordo che un giorno Baba mi disse:
"Questo Thirumalappa è uno dei pochi che supplicava i genitori di riconoscere e rispettare la Mia Realtà come incarnazione divina. Allora ero proprio un fanciullo".
Durante quegli anni, Baba al pomeriggio, verso le quattro, scendeva dalla Sua stanza che si trovava al primo piano. Era ormai un orario di routine. A destra degli edifici c'erano otto appartamenti, a sinistra cinque e nella parte posteriore c'era una fila di sei camere singole. Queste ultime erano tanto vicine al mandir che, quando il vento girava capricciosamente, gli odori della cucina andavano a finire nella sala dei bhajan.
Scendendo, Baba si fermava un istante tenendoci tutti col fiato sospeso, mentre noi ci chiedevamo quale direzione avrebbe preso. Poi, però, arrivava repentina la decisione su chi avrebbe benedetto per primo. Quanto ci faceva felici! Entrava in ogni casa per allietare con alcuni minuti della Sua presenza coloro che vi abitavano. Ogni giorno, a mezzodì, preparavamo la casa per accoglierLo: si spazzava, si risciacquava, si spolverava, si predisponevano delle decorazioni sul pavimento e alle porte venivano appese delle foglie verdi.
In ogni casa per Lui c'era sempre una sedia artistica e confortevole, disposta su un tappeto, insieme con un basso poggiapiedi. Su un altarino ricavato da una nicchia nel muro o nell'angolo di una stanza c'era sempre accesa una lampada di metallo. Ogni famiglia teneva una graziosa scatoletta per il pan ad uso personale di Baba, e noi Gli procuravamo delle foglie verde chiaro di pan, del supan dolcemente aromatico e del cedro alla rosa.
Ognuno di noi, senza batter ciglio, teneva lo sguardo fisso in attesa che spuntasse la tunica arancione e la corona di capelli. Raramente, nel Suo misericordioso giro, trascurava una casa, dove la Sua visita, che seguiva la precedente, era data quasi per scontata. La mia casa era sulla destra del mandir. Baba aveva per celia soprannominato quella fila di appartamenti "Brindavan", che significa "giungla", accentuando la terza sillaba, poiché dietro il nostro blocco di case c'era una siepe spinosa che ci separava dalla strada percorsa dai villici per recarsi al fiume; la fila di case sul lato sinistro l'aveva battezzata "Gokulam", ossia stalla, o mandria, poiché la struttura prominente era un recinto per poche mucche.
Sovente si prendeva gioco di noi, fingendo in un primo momento di entrare e dirigendosi poi con una piccola smorfia verso l'appartamento del vicino. Noi eravamo sommersi fra risa e pianti di commozione. Eravamo verdi d'invidia allorché ci scavalcava per preferire la persona della porta accanto e quando, spesso, ci esasperava facendoci udire fragorose risate provenienti da là.
Egli poi addolciva il tutto con la grazia dei Suoi giochi e canti. Intanto noi, però, ci mordevamo la lingua per aver perso l'occasione di assistere alle ilari battute da Lui provocate. Poi, tutt'a un tratto, scendeva una cortina di silenzio, che poteva durare cinque o anche dieci strazianti secondi. S'era alzato? Stava uscendo? Veniva da noi? Stava masticando del pan, o bevendo del succo d'arancia? Camminava per la stanza guardando i quadri appesi? No; normalmente, quando lo fa, canticchia. Sarà andato in cucina. Ah! Ecco, questo è il rumore della porta che dà accesso al cortile. Forse sta guardando verso la capannina dove abita Venkappa, Suo "padre"... Starà scendendo i tre gradini di pietra e dirigendosi verso la strada polverosa?
Non osavamo spiare attraverso la porta socchiusa della cucina. Sarebbe stato un sacrilegio. Come potevano le nostre fragili congetture sondare le Sue possibilità infinite? Ah, ecco! Qualcuno ha bussato alla porta della nostra cucina. È Lui. Entra canticchiando una canzoncina che scioglie immediatamente la tristezza. È un canto composto dal santo Purandara Das cinquecento anni or sono in kannada, lingua tanto cara alle nostre orecchie, e comincia così: "Non dubitare del Signore". Una rassicurazione e un ammonimento.
Un altro giorno, Baba si recò nel cortile del primo appartamento del "Brindavan" ma, mentre noi stavamo sbirciando verso quella parte nel tentativo di sorprenderLo, al momento preciso in cui sarebbe spuntato dalla porta della casa di fronte, fece in modo di passare per la loro porta posteriore e, camminando inosservato lungo una strettoia tra il numero sei e il sette, dalla parte opposta sopraggiunse silenzioso alle spalle di me, povero ingenuo.
Fasciandomi gli occhi con le Sue mani per farmi la più dolce delle sorprese, mi chiese: "Chi è?". Una cascata di lacrime fu la mia risposta. Bambinate? Il gioco di moscacieca fra un trentenne e un sessantenne? Proprio così. La Sua forma fisica era al meriggio della giovinezza, ma la sostanza contenuta era quella di un bimbo, il Bambino che era venuto per scherzare e far cambiamenti; il Bambino venuto a rivelare l'ipocrisia dell'homo sapiens e a render consapevole l'umanità dell'inganno a cui essa si è tanto tenacemente attaccata.
Una leggenda narra di un imperatore altero che cavalcava su un cavallo riccamente bardato, seguito dalla sua magnifica guardia d'onore e dai cortigiani, ma indossando abiti così diafani che era come fosse nudo. In verità, uno scaltro tessitore gli aveva promesso di vestirlo con l'abito più sottile e prezioso e, dato che i sudditi lo guardavano a lungo per la sua nudità, egli credeva di essere osservato per la sua magnificenza. Nessuno trovava il coraggio di rivelargli l'oscena verità, finché un innocente bambino cominciò a gridare: "Perché l'imperatore è nudo?".
Baba è il Bambino venuto per smascherare il vuoto della teologia accademica e ampollosa, e per metterci in ridicolo sino a quando non ci renderemo conto della Realtà che siamo. Il Divino Bambino, col Suo tenero palmo, applica il balsamo della benedizione rinfrescante sui nostri occhi arrossati dall'invidia e accecati dall'ira. Quand'Egli ci copre gli occhi, l'occhio interiore perde la sua cecità. A quel punto non ci sarà più divisione; ci sarà solo la Sua visione che, ad ogni istante, ci chiede: "Chi sono?". È il Bambino che ci trascina a Sé con puro amore e immacolata saggezza.
I bambini del mondo vedono sé stessi come il centro dell'Universo e il mondo come un prolungamento della loro esistenza. Il Bambino Divino sa che è così.
I bambini arrivano nel mondo senza alcun nome; quando arrivano, siamo noi che applichiamo loro un'etichetta. Baba, il Divino Bambino ha detto: "Io non ho nomi, ma rispondo a tutti i nomi. Non dichiaro Mio alcun posto, giacché appartengo a tutti i posti. Io sono dovunque sia desiderato".
I bambini sono molto assorti nel presente, e Baba ci ricorda: "II passato è passato. Non voltatevi mai a guardare con malinconia e rimpianto una strada che avete già percorso".
I bimbi non badano alle barriere del mondo; a loro non importano la Muraglia Cinese, o il Muro di Berlino o i muri eretti per ripicca. I bambini si lasciano coinvolgere da qualunque cosa e da chiunque: sono l'immagine dell'innocenza, dell'amore, del perdono e della fraternità. Un bambino non ha alcun pregiudizio, né prova disprezzo di alcun genere. Il Bambino Divino afferma: "Io sono uomo tra gli uomini, donna fra le donne, bambino tra i bambini"; un'affermazione che riecheggia nelle Upanisad, quando danno una descrizione di Dio: "Tu sei la donna, tu sei l'uomo, tu sei la ragazza, tu sei il vegliardo che si regge al bastone".
I bambini si divertono a far scorrere la sabbia fra le dita. Il Bambino - e io l'ho visto - un giorno prende una manciata di sabbia del Chitravathi e la trasforma in un libretto, la Bhagavad Gita. A Cape Comorin, laddove le rive sono bagnate da tre mari, ho veduto la sabbia trasformarsi in perle, mentre Egli vi camminava gioiosamente sopra. Ho visto emergere una statua d'oro massiccio di 18 pollici. Il Bambino ci stimola a ritornare bambini, in modo da poter star sempre insieme con Lui.
La consapevolezza di questa verità, col trascorrere degli anni, si faceva sempre più chiara in me e persiste ancor oggi, mentre Egli è cinquantenne e io sull'ottantina. La giocosità è una caratteristica specifica del rapporto fra Dio e l'uomo. "Ho creato il mondo per Mio piacere", scrisse Baba. E, in un'altra occasione, ebbe a dire: "Io dirigo questo teatro di burattini, e mi ci diverto". I Suoi passatempi preferiti: pungere e far scoppiare bolle d'ego, demolire castelli in aria, giocare a nascondino. L'esortazione di questo Fenomeno divino: "Amate la Mia incertezza". Chi potrebbe essere più imprevedibile d'un bimbo? A volte elargisce dei laddu, gettandoli al volo nelle mani dei devoti; a volte compie lo stesso gesto, ma con la mano vuota, divertito per lo sconforto causato; e subito dopo gliene dà due, con una pacca sulla spalla per lenire la delusione del momento.
Mi ricordo una sera, nel 1959, in cui mandò qualcuno a prendermi per essere introdotto nella Sua stanza al mandir. Baba mi disse che l'editore di un settimanale pubblicato a Hyderabad gli aveva chiesto una mia fotografia, perché la voleva pubblicare sulla sua rivista insieme ad un articolo che mi avrebbe presentato come redattore del Sanathana Sarathi. E Baba gli aveva promesso che gliene avrebbe inviata una. Perciò mi diede qualche minuto per prepararmi; Egli stesso mi avrebbe scattato la foto con una nuova macchina fotografica, che aveva scelto proprio per quel preciso scopo. Ah! la mia gioia era sconfinata. Mi sentivo al settimo cielo. Scesi di corsa i diciotto gradini e corsi a casa per darmi una riassettata al look.
Nel giro di pochissimi minuti, con un gran sorriso, tornai alla Sua Presenza.
Baba mi prese per le spalle e mi mise in posizione alla giusta distanza; guardò attraverso l'obiettivo e si congratulò con me per il mio viso fotogenico. Ero entusiasta all'idea che il mio viso sarebbe apparso davanti agli occhi di almeno trentamila lettori dell'Andhra Pradesh. Il mio sorriso si trasformò in un sorriso a trentadue denti. Baba mi avvertì con un "Pronti?"; poi premette il pulsante e...
...dalla macchina fotografica saltò fuori un nero peloso sgorbio con una coda vistosa e andò a finire sul mio collo. Strillai e balzai in un angolo della stanza, mentre cercavo di togliermi di dosso quell'orribile, irsuto... ma cos'era? un sorcio?... morto?... No. Era semplicemente un topo di cotone, che era stato messo burlescamente nella finta macchina e sganciato pigiando l'otturatore. Di fronte al mio panico, Baba rise a crepapelle e, per allentare la tensione, anch'io mi misi a ridere.
Mi rimproverò con garbo per aver bevuto la storia, che aveva inventato apposta per sgonfiarmi l'ego. Mi fece notare che il fatto d'essere un redattore non era una notizia a cui il mondo potesse mostrar interesse. La celebrità che non tramonta non andava ricercata attraverso le riviste che il mattino dopo son carta straccia, ma nel servizio di Dio e dei santi.
Lasciai la stanza, un po' più curvo, ma più saggio. La misericordia di Baba ci aiuta gradualmente e sottilmente a levarci di dosso il peso dell'ego. Egli condanna la falsa modestia, definendola come una semplice posa che mira ad ottenere attenzione ed ammirazione per sé stessi. Ci esorta ad essere semplicemente noi stessi, senza nasconderci dietro alcuna maschera.
"Quale condizione vorresti ottenere più elevata di quella d'essere il mezzo per impacchettare e spedire ogni mese il Mio messaggio a migliaia di devoti?", mi chiese.
Baba è un Sole troppo fulgido per occhi umani. Possiamo crogiolarci e bagnarci ai raggi del Sole, ma non possiamo guardarlo. Perché l'uomo possa assimilarne l'aurea magnificenza, il Sole stesso deve attenuare il proprio splendore e trasformarsi in un bellissimo disco rosseggiante.
Così pure, Baba ci consente di gettare frequentemente degli sguardi alla Sua Gloria.
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