COMPASSIONE ED EQUANIMITÀ -
(di Guido Da Todi)
- È una consuetudine avallata che la media di ricercatori spirituali - almeno per buona parte dei loro sforzi iniziali - tenda a costruirsi una sorta di tempietto chiuso nel mondo della loro soggettività. Qui si rifugiano, nei loro studi, nelle loro immaginazioni, nelle loro contemplazioni.. Salvo, poi, uscire allo scoperto e ritrovarsi nel mondo quotidiano, fatto di stridori, di prepotente mancanza di quelle serenità etiche, di apparente contrasto con l'atmosfera del tempietto.
Inoltre, una consueta, subconscia tendenza, implicita nell'uomo stesso, tende anche a cristallizzare le figure dei Grandi Esempi Spirituali; ossia, gli Avatar, i Guru storici, i Messia delle epoche passate, la cui vita ed i cui insegnamenti fanno parte delle cuspidi di ogni testo sacro che egli studia lungo il sentiero.
L'uomo dimentica l'aspetto umano del Cristo (Figlio dell'uomo e Uomo-Dio Egli stesso). E dimentica che le Incarnazioni sono venute sulla terra anche (ed innanzitutto) per parlare un linguaggio che è proprio alla razza umana.
Certo, è difficile, ad esempio, considerare uomo l'incarnazione dello yoga Sri Sri Sri Lahiri Mahasaya (Guru del Guru di Paramahansa Yogananda) venendo a conoscenza dei miracoli incredibili della sua vita; oppure, leggendo che, durante gli ultimi anni della sua esistenza, Egli restò, nella posizione del loto, e senza mai prendere sonno, nel salottino della sua casa, in un costante samadhi cosciente, al servizio del darshan verso i Suoi devoti.
Diciamo, almeno, che ci è necessario non escludere la natura divina degli Avatar (e di ognuno di noi, in potenza), ma di fonderla, tuttavia, ad un caldo, tenero elemento che contenga ogni più alto aspetto dell'umanità terrena che fu loro culla.
Concetti, quindi, come compassione ed equanimità possono venire colti nella loro essenza solo se noi partiamo da queste premesse.
La compassione non si limita a quella spinta insostenibile che spinge le Incarnazioni a tornare, lungo i cicli, sulla terra, in una forma o nell'altra, per amore del tutto. Forse, molti non comprenderebbero la vera natura di questo sacrificio, se si presentasse unicamente in questi termini.
La compassione di cui parlano i Grandi Esseri inizia a mostrare il suo volto e ad assumere turgore e fisionomia non appena lo spiritualista inizia ad uscire da quel suo tempietto (spesso - diciamoci la verità - fremente di istintiva ed aristocratica sufficienza verso il resto dei propri simili) e comincia a camminare tra la gente; esattamente come fece il principe Gotamo Budda quando uscì dal palazzo reale in cui i genitori lo avevano serrato e protetto sino a quel momento, e vide la sofferenza dipinta a larghe lettere sulla faccia del mondo.
Non esiste altro significato etimologico della compassione, se non quello che è insito - come idea innata - nel cuore di tutti noi.
Importante che la si viva veramente. Con il vicino di casa, con il collega e la collega di ufficio, con il barbone che ha freddo sotto i porticati della stazione (."ma che fa? Tanto ci è abituato."); con i membri della nostra stessa famiglia.
Ecco, la compassione di Budda va sbriciolata in un pulviscolo di amore, verso, solidale, asciutto e non emotivo, che faccia parte costante di noi, mentre viviamo la nostra dharmica quotidianità, nello stesso mondo del 2.000.
"Tutti i miei fratelli sono da me amati nello stesso intenso modo" - dice il Budda. Ed ecco apparire l'equanimità; ossia, il livellamento che dona la mancanza di diniego all'amore, che Lui dispiega a 360 gradi.
Credo che l'importante sia non deformare la compassione e l'equanimità (uniche e vere radici dell'uomo - anche se, per ora, in massima parte sepolte alla vista media) con il renderle Concetti e Simbologie Metafisiche>, estrapolate dalla vita e dall'espressione comune di ognuno di noi.
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