La magia della mente
(CHRISTINA FELDMANN)
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- MUTEVOLEZZA DELLA MENTE -
Nel Dhammapada si afferma che la mente va oltre tutte le cose. Nel corso della vita tutti sperimentiamo la forza grandissima di cui è dotata la mente. A volte ci può apparire simile a un incubo, portandoci a vivere esperienze che descriveremmo come infernali; altre volte, tuttavia, la mente può essere sorgente di sensazioni straordinariamente piacevoli, deliziandoci con fantasie, sogni e immagini romantiche che ci fanno sperimentare situazioni che definiremmo paradisiache. Oppure ci si presenta come una palude, densa di confusione, ansia e ossessioni che ci afferrano al punto da farci perdere perfino la speranza di uscirne fuori.
Ma la mente può anche risplendere di chiara luminosità ed essere sorgente di creatività e di visione profonda.
Nella mente abitano sia il carico dei ricordi del passato, delle storie e delle esperienze che tendono a ripetersi sempre uguali a se stesse, sia i progetti e le idee per il futuro, ma è grazie alla mente che possiamo anche aderire strettamente al presente.
Talvolta la mente è particolarmente noiosa, quando riproduce senza imbarazzo lo stesso pensiero più e più volte, ma allo stesso modo può diventare estremamente eccitante, producendo buone idee e pensieri sempre nuovi.
A volte può essere presa da irrequietezza e agitazione e saltare da un pensiero all’altro; altre volte può essere calma e tranquilla.
Se seguiamo il viaggio che la mente compie durante un singolo giorno o anche durante una singola ora, ci sembrerà di seguire qualcuno sulle montagne russe, tra alti e bassi, su e giù tra paradiso e inferno.
Alcuni arrivano alla conclusione che la loro mente sia un problema, una specie di nemico o ostacolo da superare. Spesso tale opinione sulla nostra mente si presenta durante i ritiri, quando sembra non esserci più un posto in cui fuggire o nasconderci da essa.
Si vedono a volte persone in meditazione che sembrano reggersi la testa con le mani; se si chiede loro qual è il problema, rispondono: "È la mia mente! Sarei un meditante meraviglioso, se solo avessi una mente differente!".
Gran parte dei problemi che sperimentiamo con la mente derivano dall’impossibilità di predirne i mutamenti. In certi momenti, ad esempio, possiamo essere calmi al punto di arrivare a congratularci con noi stessi per la nostra serenità, ma poi, all’improvviso, ecco che una tempesta mentale ci assale e ci ritroviamo totalmente persi nei nostri pensieri, di nuovo in balia della mente, mentre la tranquillità perduta diventa un ricordo lontano.
Anche quando siamo calmi la mente non può fare a meno di recitare una parte e sente il bisogno di dire: "Oh, bene, ora sono calmo". È un pensiero completamente inutile.
A volte sperimentiamo l’improvvisa cessazione della tempesta mentale. Non sappiamo perché e allora ci domandiamo se per caso abbiamo utilizzato qualche trucco speciale. E quando questo succede, ci domandiamo: "Da dove è venuta?". Infatti non si è trattato di una nostra scelta.
L’altro problema che sperimentiamo con la mente, oltre all’impossibilità di predirne i mutamenti e al suo essere sempre affaccendata, è il fatto che la storia che ci racconta può sembrare profondamente ed incrollabilmente convincente.
I GIOCHI DELLA MENTE
Vi porto un esempio tratto da un ritiro: un meditante mi disse che, durante la meditazione camminata, un’altra persona aveva scelto un tragitto che incrociava il suo. Da quel momento in poi percepì ogni tratto di meditazione camminata come una battaglia: chi doveva cedere il passo quando i due tragitti si incrociavano? Questa persona era completamente convinta che l’altro meditante lo faceva apposta e che era venuto al ritiro con l’intenzione di danneggiare la sua meditazione camminata. Nessun’altra verità era possibile!
Spesso ci imbattiamo nella nostra vita in nemici e battaglie in cui noi siamo, in realtà, la sola parte in lotta, eppure siamo convinti della necessità di ciò che facciamo.
Non tutte le storie e le costruzioni mentali sono dolorose: possono essere anche molto piacevoli, sebbene altrettanto irreali.
A volte è possibile costruire una storia perfino su un’esperienza di visione profonda. Ad esempio non è inusuale, nei ritiri, che qualcuno creda di avere avuto una rivelazione sorprendente, sia eccitato e non veda l’ora di condividerla con gli altri, per poi accorgersi, all’ora di pranzo, di non ricordarla nemmeno più. Questo costruire storie è chiamato ‘mente del meditante’, non perché tale fenomeno sia presente solo tra i partecipanti a un ritiro, ma solo perché in tale contesto appare con maggiore evidenza.
IL PAPACA
Negli insegnamenti buddhisti il termine per indicare la tendenza a costruire storie è papaca. E se c’è una parola che faremmo bene a ricordare per tutta la vita è proprio questa, perché può salvarci da ogni genere di difficoltà.
Il papaca è una molteplicità di pensieri che colora e distorce la percezione delle cose così come sono nella realtà, formando una rete che entra in relazione con il momento presente, relazione unica e personale, dipendente dai nostri condizionamenti e dalle nostre storie. Il nostro mondo assume allora un colore particolare che ha un significato specifico per noi.
Ci sono diversi tipi di papaca di cui è importante parlare. Uno è il modo in cui la nostra percezione del mondo viene distorta dalle sensazioni di piacere o di avversione; ciò avviene quando proiettiamo una sensazione su qualcuno o qualcosa, investendo in questo modo quella persona o quell’oggetto del potere di darci piacere oppure di minacciarci e danneggiarci.
Un classico esempio di questo genere di papaca è dato dalle storie di amore o dalle battaglie che si accendono in un ritiro. Può capitare di vedere nel silenzio qualcuno da cui si è attratti e di ritrovarsi nel giro di poche ore a immaginarsi già sposati o in luna di miele o addirittura a tirar su famiglia insieme, e a fantasticare sulla felicità futura legata a quella persona.
All’altro estremo è l’avversione, quando nel silenzio del ritiro c’è qualcuno verso il quale non ci si sente attratti. Il motivo può essere del tutto banale, come il suo modo di pettinarsi o il colore dei suoi calzini. All’improvviso succede che, dovunque si vada, quella persona sembra essere sempre accanto a noi. Allora tutta la nostra infelicità sembra risiedere nei calzini di quella persona.
Questo genere di papaca dà solidità alla relazione, la rende molto personale.
Tutti noi usiamo molto spesso il linguaggio del papaca quando, ad esempio, facciamo delle generalizzazioni: "I tedeschi sono così, quella perona è orribile, quest’esperienza è disgustosa", o al contrario quando affermiamo che altre persone o esperienze sono meravigliose ed entusiasmanti per poi, magari in un secondo momento, sentirci in maniera completamente diversa nei loro confronti.
Eppure in quel momento di papaca le nostre impressioni sembrano eterne: tutto è impermanente nella vita fuorché questa relazione!
Questo genere di papaca è detto tanha-papaca, cioè papaca basato sul piacere, o dosa-papaca, basato sull’avversione.
Un’altra forma di papaca è il diti-papaca, che indica le fantasie che diventano opinioni e prendono la forma di vere e proprie conclusioni. Un esempio è colui che, al primo giorno di un ritiro, decide che tutti gli altri partecipanti stanno soffrendo e pensa: "Sono tutti così seri, qui, sembra di essere a una riunione dei Depressi Anonimi". Potrei portargli cinquanta persone a dirgli quanto sono felici, ma resterebbe incrollabile nella sua idea e anzi, probabilmente, sarebbe anche tentato di dir loro che sono degli illusi.
Un’altra forma di papaca che è utile ricordare è il mana-papaca. Si verifica quando il nostro senso del sé o dell’io si identifica con un oggetto o con un’esperienza. Ad esempio può accadere di provare un momento di pace durante la meditazione ed ecco che abbiamo già deciso che siamo noi il prossimo Buddha in incognito. Oppure sperimentiamo una sensazione lievemente spiacevole al ginocchio e decidiamo di essere dei falliti in campo spirituale.
Il papaca, cioè questo costruire storie, non nasce di colpo, ma si sviluppa secondo un determinato processo. Comprendere questo processo può aiutare a non farsi prendere dal panico durante il nostro fantasticare e forse può perfino aiutarci a lasciar andare alcune credenze che coltiviamo al riguardo.
GLI INGREDIENTI DEL PAPACA
Consideriamo alcuni ‘ingredienti’ del papaca. Perché cominci bastano le semplici informazioni sensoriali e l’organo di senso.
Poniamo che abbiate deciso di praticare la meditazione camminata nei pressi della cucina; l’odore del cibo cucinato vi raggiunge, il senso dell’olfatto è presente: avete tutto ciò che serve perché cominci il papaca. Il dato sensoriale, cioè l’odore, incontra l’organo di senso: c’è il contatto. Con il contatto entra in gioco la mente che identifica l’odore. Forse si tratta di uova. Può darsi che abbiamo una particolare sensibilità per le uova a causa del nostro passato. Possiamo ricordarci di quando, da bambini, andavamo in una fattoria a raccoglierle, e quel sentimento piacevole ci porta al pensiero successivo: quanto eravamo felici da bambini! Dov’è finita tutta quella felicità? E subito entriamo nel meccanismo del papaca. Oppure l’odore delle uova può farci nascere dei ricordi spiacevoli, come una terribile indigestione causata proprio da questo cibo. Pensieri e sentimenti allora cominciano ad intrecciarsi al punto che potremmo trovarci a scrivere una lettera al cuoco del tipo: "Non sai che le uova sono un alimento terribile per le persone che meditano?".
A seconda di come i nostri pensieri e sentimenti si intreccino tra loro, potremmo ritrovarci o ad aspettare davanti alla porta della sala da pranzo mezz’ora prima che il pasto sia servito, o a saltare completamente il pranzo. Questo è il processo del papaca.
A volte, per saggezza retrospettiva, appena usciti da una tempesta di papaca diciamo a noi stessi: "Non avevo proprio bisogno di tutto questo!". Eppure ci ricordiamo di come, nel pieno del papaca, tutto sembrava così convincente e reale. Si può provare anche una certa dose di frustrazione vedendo quanto spesso cadiamo nella magia della mente.
LA LIBERAZIONE DAL PAPACA
Il Buddha disse alcune parole al riguardo, affermando che la meditazione è molto più della semplice coltivazione di una consapevolezza passiva e dolorosa delle nostre continue ricadute. La meditazione intende, in realtà, liberarci proprio da questo cadere e ricadere negli stessi problemi.
Una delle cause per cui si genera il papaca è l’attenzione non saggia, cioè l’aggrapparsi alle impressioni sensoriali e alle associazioni che ne nascono. Il Buddha ci ha incoraggiato a nutrire una consapevolezza che non indugi su alcunché né abiti da alcuna parte. Egli disse che la mente non si appoggia a nulla, è sconfinata e incommensurabile. Un saggio cinese disse che la saggezza non brama né odia.
Queste però sono soltanto belle parole e noi ci ritroviamo a domandarci come fare per arrivare a un tale livello, quando in realtà sembriamo completamente impantanati nell’abitudine del papaca. Imparare a sradicarlo è in realtà imparare a sradicare l’illusione. E parte dello sradicamento si raggiunge attraverso lo sviluppo della calma e della visione profonda.
La pratica è anche pratica di samatha, cioè la coltivazione della capacità di focalizzazione e di concentrazione, che è in grado di spezzare le preoccupazioni e il continuo affaccendarsi della mente. Imparare a riposare con agio e calma dentro il momento presente porterà la mente alla tranquillità, a un senso di apertura più profondo, a una maggiore sensibilità e chiarezza di comprensione.
Io penso che spesso la pratica di samatha venga sottovalutata. Molti praticanti dicono: "Non voglio praticare la concentrazione, voglio praticare la consapevolezza aperta". Ma francamente per la maggior parte delle persone l’attenzione aperta, senza il fondamento di samatha, si riduce a vagare con la mente per aria con una leggera tinta di consapevolezza. Samatha, invece, sradica l’abitudine del papaca.
Dobbiamo renderci conto che una parte di noi è perversamente affascinata dalle montagne russe che la mente percorre. Il papaca sembra portarci molte cose, eccitamento e drammi, senso di identità e distrazione. Ma il papaca non porta mai la pace.
Con la pratica di samatha l’infatuazione per il papaca semplicemente termina, perché questa pratica apre le porte della gioia, della calma, della felicità e del benessere. La mente perde allora ogni interesse nel dimorare ossessivo in fantasie e costruzioni mentali. È un po’ come dover scegliere tra un secchio di chiodi o un cibo molto ghiotto per il pranzo; può darsi che per una o due volte possiamo imparare qualcosa dal secchio di chiodi, ma molto probabilmente saremo ben lieti di lasciarlo andare!
La mente chiara e sgombra non è interessata alle costruzioni, ma è ricca di creatività. Non è interessata a ricamare il presente mediante interminabili associazioni con il passato, ma vuole percepire il presente con grande senso di immediatezza. È una mente di amicizia. Il Buddha ha parlato della mente come splendente e radiosa. Samatha tuttavia non è sufficiente: occorre la saggezza, la visione profonda.
IL PROBLEMA NON È LA MENTE
Quando praticavo in Asia a volte non potevo fare a meno di notare alcune differenze tra gli studenti asiatici e quelli occidentali. In alcune occasioni ci capitava di scambiare le nostre esperienze in incontri di gruppo: la maggior parte di noi occidentali non faceva altro che lamentarsi di mille cose che non andavano bene. Quando invece si chiedeva a uno studente asiatico come procedesse la sua pratica, in genere questi sedeva con un sorriso composto e dondolava la testa in cenno di assenso. Ricordo che a volte ero furiosa con questi studenti asiatici e costruivo storie su come fossero emozionalmente repressi e mentalmente morti. Poi capii che in realtà c’è una grande differenza tra i nostri rispettivi retroterra culturali.
Nell’insegnamento buddhista la mente è un organo di senso che ha le sue specifiche informazioni sensoriali - i pensieri, le immagini, i progetti, le idee - proprio come l’occhio ha le immagini visive, l’orecchio i suoni, il corpo le sensazioni tattili. L’informazione sensoriale della mente è considerata semplicemente un fenomeno come tutti gli altri, che viene e va, appare e scompare.
Si direbbe, invece, che abbiamo un problema particolare con questo organo di senso: abbiamo con esso una relazione molto diversa rispetto a quella che stabiliamo con tutti gli altri organi di senso.
Non sentiamo affatto di avere dei problemi riguardo alla vista, ai suoni, agli odori. Se ad esempio, passando vicino alla cucina, sentiamo un odore di uova, anche se non ci piacciono, non diciamo "Io sono le uova"; saremo ben lieti di lasciare che le uova siano le uova. Allo stesso modo, se sentiamo il rumore di una macchina nel viale, non diciamo "Io sono la macchina", ma siamo felici di lasciare che la macchina sia la macchina e svolga la sua funzione.
Invece, per quanto riguarda i pensieri e i processi mentali, spesso percepiamo le cose in modo molto diverso e raramente abbiamo la stessa equanimità: è molto più forte la tentazione di dire: "Io sono".
Diciamo: "Sono triste, sono arrabbiato, sono distrutto, sono reattivo, sono negativo, sono positivo". Ci sono molti modi di costruire storie riguardo a noi stessi e di creare una relazione molto personale con la mente.
LO SPETTACOLO DELLA MENTE
Varrebbe la pena chiedersi se le attività mentali sono realmente un problema: forse la mente non è un avversario e non ha il potere di ostacolare la pace, la compassione, la liberazione. In realtà la mente non ha il potere di impedire proprio nulla! Negli insegnamenti buddhisti la mente non è mai un problema. Il vero problema è l’ignoranza.
Penso sia importante capire che nel contesto buddhista l’ignoranza non è intesa come insulto. Non si afferma mai che qualcuno debba essere biasimato per l’ignoranza. È vista piuttosto come un velo di irrealtà che copre la realtà.
Ci sono tre forme di ignoranza: la prima è quella che cerca di percepire come permanente ciò che è impermanente. È possibile vedere i conflitti che questa visione errata causa nella nostra vita, quando cerchiamo di rendere solide e immutabili le sensazioni piacevoli, o quando cerchiamo di avvinghiarci a qualcosa che sta già scomparendo o di liberarci da qualcosa che riteniamo permanente.
Un secondo aspetto dell’ignoranza consiste nel vedere ciò che è insoddisfacente come soddisfacente, accettare il piacere piuttosto che la felicità, considerare utile indugiare nelle opinioni e nelle conclusioni, cercare l’eccitazione piuttosto che la pace.
Un ulteriore aspetto dell’ignoranza consiste nel percepire il sé dove non c’è sé, nell’accettare come realtà personale una nozione del sé che è sempre stata definita dai contenuti della mente; accettare come reale la divisione tra me e voi, noi e loro, interno ed esterno.
Un mistico cristiano disse un giorno che l’ansia è l’umore dell’ignoranza.
Osservando dentro di noi, potremo vedere quanta ansia ci sia nel nostro cercare vanamente di creare un mondo sicuro e affidabile e nei futili, interminabili sforzi per trovare un mondo in cui siano presenti solo sensazioni ed esperienze piacevoli.
Sviluppare la visione profonda e la naturale saggezza è il vero scopo della pratica. Più saggezza, più riflessione, più calma fanno emergere la chiara visione, e questa penetra l’ignoranza, ponendo fine alla sofferenza. Il Buddha ha paragonato la visione profonda al vedere la falsità di uno spettacolo di magia.
Era arrivato in città uno spettacolo di magia, forse lo stesso davanti al quale tante volte nel passato anche noi siamo rimasti affascinati. Un giorno, però, decidiamo, invece di sedere a bocca aperta tra il pubblico, di rimanere in silenzio dietro le quinte per guardare attentamente cosa succede. Possiamo così vedere tutti i trucchi del mago: i doppi fondi delle scatole, i fili invisibili, le tasche segrete. Ipnotizzati davanti all’agitarsi della bacchetta magica, tutto ciò fino ad allora ci era rimasto nascosto. Ora di colpo non è più così: lo spettacolo, per noi, è finito.
Ciò non significa che la vita sia improvvisamente rimasta privata della sua ricchezza e del suo mistero: nessuno spettacolo di magia potrà mai nemmeno sfiorare il mistero e la ricchezza che c’è nel comprendere ciò che è vero. Quando lo spettacolo di magia è finito, allora si scopre una conoscenza illimitata e luminosa. E il Buddha disse che non c’è gioia più grande del risveglio.
DISCORSO TENUTO IL 27 GENNAIO 1996 A ROMA; TRADUZIONE DI ROBERTO LUONGO
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