INTRODUZIONE AL PENSIERO BUDDISTA: PARTE PRIMA
Antologia di testi filosofici buddhisti tratta dal "Canone Pali" >
dall'ex sito http://www.ilgiardinodeipensieri.com
Introdurre un'esposizione del pensiero buddhista ad un pubblico di lettori italiani non è cosa facile, soprattutto considerando che quanto ci accingiamo a presentare verrà letto, soppesato e valutato da persone che operano nella scuola, che ogni giorno si confrontano con problemi concreti, la cui soluzione spesso richiede un continuo e faticoso rimettersi in gioco, come insegnanti e come persone.
Nonostante il dibattito e il confronto tra Occidente ed Oriente non sia una novità dell'ultima ora e il Buddhismo, nei suoi variegati aspetti ed implicazioni, abbia fatto ingresso nella cultura europea ed italiana da almeno trent'anni, la filosofia buddhista non è stata mai presa seriamente in considerazione nell'ambito dei programmi scolastici.
Proponendo alla vostra attenzione questo lavoro, non ci aspettiamo certo di rimediare ex abrupto ad una mancanza che non spetta certo a noi giudicare tale e che richiede ben altro impegno e profondità d'intenti. Ci accontenteremmo di aprire una finestra su un altro modo di concepire il mondo e il posto che in esso spetta all'uomo, un modo così diverso e nello stesso tempo così dialetticamente ricco rispetto alla nostra tradizione filosofica e culturale che non potrà esimerci dal provare quella meraviglia, su cui, come insegnano gli antichi, poggia ogni progresso intellettuale e spirituale.
Di esposizioni del pensiero buddhista, sia a livello divulgativo che accademico, sono piene le librerie e le biblioteche. Chi volesse accostarvisi per semplice curiosità o per più fondati motivi di studio, in mancanza di una guida sicura, sarebbe costretto ad affidarsi al caso o al proprio personale intuito. A complicare la questione, contribuisce senz'altro la grande messe di scuole e discipline più o meno coerenti nell'ispirazione dottrinale e contigue nella dimensione spazio-temporale della storia del Vicino e Lontano Oriente. Il Buddhismo, come movimento religioso e spirituale, o semplice stile di vita e di pensiero, nel corso dei secoli si è diffuso da un capo all'altro del continente asiatico, dall'India, alla Cina, alla Thailandia, al Giappone, dando vita a civiltà e culture tradizionali diverse, in un arco di tempo lungo 25 secoli.
Rintracciarne i comuni fondamenti non è impresa delle più semplici. Ogni civiltà nel tempo ha collezionato una propria tradizione testuale e letteraria, prima in pali, un dialetto della sub-continente indiano derivante dall'antico sanscrito, poi in cinese e nelle altre lingue asiatiche.
Dalla congerie di documenti a disposizione degli studiosi emergono con una certa chiarezza, tre punti fondamentali: la storicità del Buddha, vissuto intorno al VI secolo a. C.; il costituirsi alla morte del Buddha di una vasta comunità di discepoli in grado di fondare una solida tradizione orale del suo insegnamento; il confluire di questa tradizione orale in una documentata tradizione scritta tra il I secolo a. C. e il II secolo d. C.
Siddharta, il Buddha storico, apparteneva alla nobile famiglia dei Shakya, regnante su un distretto dell'India nord-orientale alle pendici della catena hymalaiana nell'attuale Nepal. La sua vita si svolse in questa regione. Più tardi, quando il Buddhismo si diffuse verso sud, le testimonianze tramandate per secoli da generazioni di monaci e fedeli laici, furono raccolte nel cosiddetto Canone Pali, dal nome della lingua in cui fu redatto. A tutt'oggi il Corpus degli scritti conosciuto come Canone Pali è in uso, come raccolta di testi sacri, presso i monaci buddhisti di Ceylon, dell'India meridionale e del Sud-Est asiatico, Thailandia e Birmania, rappresentanti del Piccolo Veicolo (Hinayana), termine col quale si indica la prima, originaria espansione del Buddhismo storico (in contrapposizione col Grande Veicolo (Mahayana), la successiva espansione della religiosità buddhista nelle regioni nord-orientali dell'Asia, in particolare Cina e Giappone).
Si tratta, pertanto, della più antica e più autorevole fonte scritta in nostro possesso. Il Canone è immenso: consta di migliaia e migliaia di pagine, ordinate in volumi e 'ceste' di volumi.
Era nostra intenzione partire da una raccolta di testi, una piccola antologia da sottoporre all'attenzione del lettore principiante, invertendo la tendenza assai diffusa, per evidenti ragioni divulgative, di presentare commenti ed esposizioni 'manualistiche' a prescindere completamente dalla lettura dei testi originali, oppure includendone brani scelti nel corpo testuale dell'esposizione. Una tendenza seguita pedissequamente, soprattutto nelle scuole, anche per la filosofia occidentale, e che solo da alcuni anni a questa parte è stata combattuta con successo col ribadire la centralità del testo filosofico rispetto alle sovrastrutture argomentative e critiche.
Durante un viaggio in un paese dell'Estremo Oriente, chi scrive è venuto in possesso, per puro caso, di un libro edito dalla Buddhist Promoting Foundation, un'Associazione nipponica senza scopo di lucro che da molti anni persegue il fine di diffondere la conoscenza del pensiero buddhista attraverso un'antologia di testi, ricostruita sulla base del Canone Pali.
Il libro in questione, pubblicato con testo a fronte inglese-giapponese nel 1992 (ma la prima edizione risale al 1966) e intitolato The Teaching of Buddha, fa esattamente al caso nostro, poiché unisce il lavoro sulle fonti, che non saremmo in grado di svolgere, date le insormontabili barriere linguistiche, con quello preziosissimo della selezione e della riproposizione delle stesse in un tessuto espositivo organico e ben strutturato.
I testi che seguono sono stati tradotti dall'inglese. Trattandosi di una traduzione di una traduzione e non potendo accedere altrimenti alle fonti originali (accuratamente citate passo per passo dagli autori) non possiamo accampare alcuna pretesa di scientificità, per quanto il libro in questione e l'Associazione da cui è stato pubblicato sembrino offrire buone garanzie di affidabilità ed autorevolezza.
Nella traduzione italiana, grazie all'esperienza acquisita nel corso degli anni dalla lettura di altre opere filosofiche buddhiste, si è cercato di riprodurre, per quanto possibile, lo stile e le cadenze letterarie proprie dell'originale, senza trascurare di utilizzare un lessico comprensibile per il lettore italiano che si intenda di filosofia.
Col tempo, fatta salva la centralità del testo, ci si sforzerà di costruirgli intorno un reticolo di note e commenti allo scopo di chiarire alcuni concetti chiave del pensiero buddhista e di proporre all'attenzione del lettore alcune questioni teoretico-comparative condivise con la tradizione filosofica occidentale
La vita di Shakyamuni Buddha
1. Il clan degli Shakya dimorava lungo il fiume Rohini che scorre tra le colline a sud della catena dell'Himalaya. Il loro re, Shuddhodana Guatama, stabilì la capitale a Kapilavastu, fece costruire un grande castello e governò saggiamente, meritandosi il favore del suo popolo.
La regina si chiamava Maya. Era la figlia dello zio del re, che regnava su un distretto confinante dello stesso clan Shakya.
Per vent'anni essi non ebbero figli. Ma una notte la regina Maya fece uno strano sogno, nel quale vedeva un elefante bianco entrarle nel ventre attraverso il lato destro del petto, e divenne gravida. Il re e il popolo attendevano con impazienza la nascita di un principino. Seguendo la tradizione, la regina fece ritorno alla casa dei genitori per partorire, e lungo la strada, sotto un bel sole primaverile, decise di riposarsi nel Giardino di Lumbini. Tutto intorno a lei era un fiorire festoso di Ashoka. Deliziata, allungò il braccio destro per strapparne un ramoscello e così facendo diede alla luce un principe. La natura circostante esprimeva una profonda delizia, glorificando la regina ed il bimbo regale; cielo e terra ne gioivano. Questo giorno memorabile era l'otto di aprile.
Incomparabile fu la felicità del re. Al figlio diede il nome di Siddharta, che significa "Ogni desiderio è stato pienamente realizzato".
2. Nel palazzo reale, tuttavia, la felicità fu subito seguita dallo sconforto, poiché, pochi giorni dopo, l'amata regina Maya morì improvvisamente. La sorella minore, Mahaprajapati, divenne la madre adottiva del bimbo e lo tirò su con cura ed amore.
Un eremita, chiamato Asita, che viveva sulle montagne poco distanti, notò che dal castello si levava un chiarore straordinario. Interpretandolo come un buon auspicio discese al palazzo e gli fu mostrato il bimbo. Così predisse: "Questo principe, se rimane a palazzo, da adulto diverrà un grande re e soggiogherà il mondo intero. Ma se abbandona la corte per abbracciare una vita religiosa, sarà un Buddha, il Salvatore del mondo".
In principio il re accolse con piacere questa profezia, ma in seguito iniziò a preoccuparsi della possibilità che il suo unico figlio lasciasse il palazzo per diventare un monaco errante.
All'età di sette anni il Principe cominciò a prendere lezioni sulle arti civili e militari, ma i suoi pensieri erano più naturalmente orientati verso un altro genere di cose. Un giorno di primavera uscì dal castello in compagnia del padre. Insieme stavano osservando un contadino intento all'aratura, quando notò un uccello piombare al suolo e carpire via un piccolo lombrico che era stato rigirato dall'aratro del contadino. Il principino si sedette all'ombra di un albero e ripensò alla scena, mormorando tra sé e sé:
"Ahimè! Tutte le creature viventi si uccidono l'un l'altra?"
Il Principe, che aveva perduto la madre subito dopo la nascita, fu profondamente colpito dalla tragedia di queste minuscole creature.
La ferita infertagli nello spirito diventava sempre più profonda giorno dopo giorno, man mano che cresceva; come una piccola cicatrice sul tronco di un giovane albero, la sofferenza insita nella vita umana finì con l'imprimersi a fondo nella sua mente.
La preoccupazione del re cresceva sempre di più, poiché egli teneva a mente la profezia dell'eremita e tentava in ogni modo possibile di consolare il Principe, volgendo altrove i suoi pensieri. Pertanto, decise che il figlio, compiuto il diciannovesimo anno, avrebbe sposato la Principessa Yashodhara, la figlia di Suprabuddha, signore del castello Devadaha e fratello della defunta regina Maya.
3. Per dieci anni, nei diversi Padiglioni di primavera, autunno e della stagione delle piogge, il principe fu immerso in giri di musica, danza e piacere sensuale, ma sempre i suoi pensieri tornavano a fissarsi sul problema della sofferenza ogni qual volta si sforzasse di afferrare il vero significato della vita umana.
"I lussi del palazzo, questo corpo forte e sano, questa giovinezza ricolma di gioia! Cosa significano tutte queste cose per me?" andava meditando tra sé e sé. "Un giorno potremmo ammalarci, e in ogni caso dobbiamo invecchiare; non c'è scampo dalla morte. L'orgoglio della giovinezza, l'orgoglio della salute, l'orgoglio di esistere; le persone assennate dovrebbero gettar via tutto ciò".
"Un uomo che lotta per l'esistenza sarà naturalmente portato a cercare qualcosa per cui valga la pena spendere la propria vita. Ci sono due modi di cercare: un modo giusto ed uno sbagliato. Se cerca nella maniera errata, costui sarà obbligato comunque a riconoscere che malattia, vecchiaia e morte sono inevitabili, ma bramerà con tutte le forze il loro opposto.
Se cerca nella maniera giusta, comprenderà la vera natura di malattia, vecchiaia e morte, e fonderà il senso della vita in ciò che trascende tutte le umane sofferenze. Nella mia vita di piaceri e mollezze sto percorrendo, a ben guardare, il sentiero sbagliato".
4. Questo travaglio spirituale afflisse continuamente il principe fino al giorno in cui nacque il suo unico figlio, Rahula, ed egli compì ventinove anni. Tale evento segnò inequivocabilmente il punto di svolta, poiché Siddharta decise di abbandonare il palazzo e cercare la soluzione al dilemma che lo affliggeva votandosi alla vita vagabonda del mendicante. Così una notte lasciò il castello in compagnia del suo auriga, Chandaka, e del suo cavallo preferito, Kanthaka, bianco come la neve.
L'angustia che lo attanagliava non ebbe fine e molti demoni lo tentarono rivolgendogli suadenti parole: "Faresti meglio a ritornare sui tuoi passi, al castello, giacché il mondo intero potrebbe presto appartenerti". Ma egli rispose al tentatore che non bramava in cuor suo il mondo intero. Così, col cranio rasato volse i suoi passi verso sud, portando con sé solo una ciotola da mendicante.
Innanzitutto, il principe fece visita all'eremita Bhagava e osservò le sue pratiche ascetiche. Quindi, si recò presso Arada Kalama e Udraka Ramaputra per apprendere i loro metodi finalizzati al conseguimento dell'Illuminazione attraverso la meditazione; ma dopo aver praticato con loro per un certo periodo di tempo si convinse che non lo avrebbero condotto all'Illuminazione. Infine, partì per la provincia di Magadha e si diede alle pratiche ascetiche dimorando nella foresta di Uruvilva sulle rive del fiume Nairanjana, che scorre presso il villaggio di Gaya.
5. I metodi della sua pratica furono incredibilmente rigorosi. Pungolava il suo spirito con il fiero intento che "nessun asceta nel passato, nessuno nel presente e nessuno nel futuro, hanno praticato né praticheranno con maggiore forza e concentrazione di quanto faccia io".
Tuttavia Siddharta non riusciva ancora a centrare il suo obiettivo. Dopo sei anni trascorsi nella foresta abbandonò definitivamente la pratica dell'ascetismo. Andò a prendere un bagno nelle acque del fiume e accettò una ciotola di latte dalle mani di Sujata, una fanciulla che viveva nel vicino villaggio. I cinque compagni che avevano condiviso con il principe i sei anni di dure pratiche ascetiche furono turbati e indignati dal fatto che egli osasse prendere del latte dalle mani di una fanciulla; disprezzarono quella che ai loro occhi sembrava debolezza e lo abbandonarono.
Così il principe fu lasciato solo. Si sentiva ancora debole, ma pur correndo il rischio di perdere la vita, affrontò un altro periodo di meditazione, dicendo a sé stesso, "Il sangue Pu anche prosciugarsi, la carne decadere e le ossa giacere sparpagliate qui intorno, ma giammai abbandonerò questo luogo finché non avrò scoperto la via che conduce all'Illuminazione".
Ebbe inizio una lotta intensa e senza tregua. La disperazione fece breccia nel suo spirito e lo empì di pensieri confusi, ombre tenebrose pendevano sul suo capo, e si ritrovò stretto d'assedio dalle lusinghe dei demoni. Con attenzione e pazienza le esaminò una per una e le rigettò tutte. Fu una battaglia durissima, al punto che il suo sangue scorreva sempre più rarefatto, la carne andava sfaldandosi e le ossa erano sul punto di rompersi.
Ma quando la stella del mattino apparve nel cielo ad oriente, la lotta era terminata e la mente del principe era chiara e luminosa come il giorno nascente. Alla fine, egli aveva trovato la via che conduce all'Illuminazione. Era l'otto dicembre, quando Siddharta divenne un Buddha all'età di trentacinque anni.
6. Da qual giorno in poi il principe fu conosciuto con nomi differenti: c'era chi parlava di lui come del Buddha, Colui che è Perfettamente Illuminato, Tathagata; altri lo appellavano Shakyamuni, il Saggio della casata Shakya; altri ancora "Colui che l'intero mondo onora".
Per prima cosa, egli diresse i suoi passi verso Mrigadava nel Varanasi dove si trovavano i cinque monaci che avevano trascorso con lui i sei anni della sua vita ascetica. Al principio essi lo evitarono deliberatamente, ma dopo che ebbero parlato con lui, gli prestarono fede e divennero i suoi primi discepoli. In seguito si recò al castello di Rajagriha e convertì alla sua causa il re Bimbisara che gli si era sempre dimostrato amico. Da qual momento in poi, se ne andò vagando per la regione sostentandosi di elemosine ed insegnando agli uomini ad accettare il suo modo di vivere.
E la gente si rivolse a lui come l'assetato agogna acqua e l'affamato cibo. Due grandi discepoli, Sariputra e Maudgalyayana e i loro duemila seguaci si convertirono alla sua dottrina.
Al principio il padre del Buddha, re Shuddhodana, ancora sofferente nel profondo del cuore a causa della decisione del figlio di abbandonare il palazzo, mantenne le distanze, ma in seguito divenne un suo fervente discepolo. Mahaprajapati, la madre adottiva del Buddha, la principessa Yashodhara, sua moglie, e tutti i membri del clan degli Shakya iniziarono a seguirlo. Col passare del tempo, i suoi devoti e seguaci divennero moltitudini.
7. Per quarantacinque anni il Buddha andò in giro per la regione pregando e persuadendo uomini e donne a seguire la sua dottrina. Ma giunto alla venerabile età di ottant'anni, nei pressi di Vaisali lungo la strada che collega Rajagriha a Shravasti, cadde ammalato e predisse che entro tre mesi sarebbe entrato nel Nirvana. Si mise nuovamente in viaggio finché non raggiunse Pava dove la sua malattia si aggravò ulteriormente per aver mangiato del cibo offertogli da Chunda, un fabbro. Comunque, a dispetto della grande sofferenza e debolezza, egli raggiunse la foresta che confina con Kusinagara.
Giacendo tra due grandi alberi di sala, egli continuò ad ammaestrare i suoi discepoli fino all'ultimo momento. Così il Buddha, dopo aver portato a compimento il suo lavoro di maestro, il più grande che la storia ricordi, entrò nello stato di quiete assoluta.
Sotto la guida di Ananda, il discepolo favorito del Buddha, il suo corpo fu cremato dagli amici a Kusinagara.
Sette sovrani delle province confinanti oltre al re Ajatasatru chiesero che le reliquie fossero divise tra di loro. Il popolo di Kusinagara in un primo tempo si oppose e la disputa rischiò di trasformarsi in guerra aperta; ma grazie ai buoni consigli di un saggio chiamato Drona, la crisi rientrò e le reliquie furono ripartite tra gli otto grandi regni. Le ceneri della pira funeraria e la giara di terracotta che conteneva le reliquie furono donate ad altri due sovrani per essere onorate alla stessa maniera. Così vennero erette dieci grandi torri per commemorare il Buddha e per conservare le sue reliquie e ceneri.
L'ultimo discorso del Buddha
1. Sotto gli alberi di sala a Kusinagara, appressandosi la fine, Buddha rivolse queste ultime parole ai suoi discepoli:
"Fate di voi stessi una luce. Contate su voi stessi, e non siate dipendenti da nessun altro. Lasciatevi guidare dai miei insegnamenti come da una luce. Fate affidamento su di loro e non legatevi a nessun'altra dottrina. Considerate bene il vostro corpo: abbiate sempre presente la sua impurità. Ben sapendo che tanto il dolore quanto il piacere sono parimenti causa di sofferenza, come potete essere indulgenti verso i suoi desideri? Considerate bene il vostro 'io': riflettete sulla sua transitorietà; come potete esser delusi da ciò che sempre muta, coltivare orgoglio ed egoismo, sapendo che tutto ciò conduce inevitabilmente alla sofferenza? Considerate bene tutti gli esseri che consideriamo sostanziali; è forse possibile trovare in mezzo a loro un qualche 'sé' permanente? Cosa sono se non aggregati che presto o tardi si sbricioleranno in tante parti e si perderanno nel nulla? Non lasciatevi confondere dall'universalità della sofferenza, ma seguite il mio insegnamento, anche dopo la mia morte, e sarete liberi dalla sofferenza. Fate questo e sarete davvero miei discepoli".
2. "Miei discepoli, gli insegnamenti che vi ho donato non dovranno mai cadere nell'oblio né esser abbandonati. Sono da conservare come un tesoro, da meditare e da mettere in pratica. Se batterete questa via sarete sempre felici".
"Il cuore della dottrina consiste nel controllo della vostra mente. Se riuscirete a dominare i pensieri e a gettar via l'egoismo, manterrete una condotta di vita giusta, la mente pura e il parlare degno di fede. Se terrete sempre a mente la transitorietà della vita, sarete in grado di far fronte all'egoismo e alla paura, ed eviterete tutti i mali e le sofferenze che da essi derivano".
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