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SCHEDA ARTICOLO N. «00824»

CLASSIFICAZIONE: 2
TIPOLOGIA: BUDDISMO
AUTORE: CORRADO PENSA
TITOLO: LE FONDAMENTA DEL DHARMA: LE 4 NOBILI VERITÀ PARTE 1 E 2 (MONOGRAFIA LUNGA)
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TESTO ARTICOLO



(di Corrado Pensa)

(prima parte)


LE FONDAMENTA DEL DHARMA: LE QUATTRO NOBILI VERITÀ

Le quattro nobili verità costituiscono il fulcro dell.insegnamento
del Buddha. Le quattro nobili verità (nobili perché
conducono alla liberazione) sono le seguenti: la verità dell.esistenza
di dukkha ovvero della sofferenza, la verità che dukkha
è prodotta da cause (raccolte sotto i tre capitoli dell.attaccamento,
dell.avversione-paura e della confusione-ignoranza), la
verità che esiste la possibilità di porre fine alla sofferenza (o
verità della liberazione, nirvana ) e infine la verità che esiste un
cammino, un sentiero, un insieme di mezzi per lavorare a conseguire
lo scopo, ossia il superamento della sofferenza.

Nelle scritture viene detto che le quattro nobili verità, che
sono in un certo senso la sintesi del Dharma, sono belle all.inizio,
belle a metà e belle alla fine; e altrettanto si dice del
Dharma. Ma se non si è sviluppata una certa dimestichezza con
il lavoro interiore e con la pratica, una simile affermazione può
suonare come un. espressione poetica e nient.altro. Solo con il
passare del tempo e col maturare della pratica ci potremo rendere
conto, invece, della sua verità viva. Inoltre, nella tradizione
del Dharma si afferma che ogni volta che . in un contesto
di pratica . ascoltiamo discorsi, detti e riflessioni intorno alle
quattro verità, in ognuna di queste occasioni si accresce la
nostra capacità di comprenderle e di realizzarle. E anche questa
è una verità che piano piano arriviamo a toccare con mano.

Infatti in virtù della pratica si diventa come più porosi, più
ricettivi a questo tema fondamentale, e pertanto l.ascoltarlo
ripetutamente è, insieme, effetto e causa di ulteriore approfondimento.
Senza dimenticare che l.ascolto fa parte a tutti gli

effetti della pratica del Dharma. Inoltre, in un contesto di pratica,
cominciano a farsi strada un udire e un percepire diversi:
tali, cioè, che permettono una comprensione più profonda.
D.altronde ciò che è di gran valore costa. Costa tempo ed
energia. Inevitabilmente quindi anche la verità delle quattro
nobili verità emerge molto gradualmente: da una nozione
puramente dottrinaria e mentale passiamo alla percezione di
una .cosa. sempre più reale.

ESISTE LA SOFFERENZA (E VA RICONOSCIUTA).
IL LAVORO CON DUKKHA E AVIJJÁ

La prima nobile verità, dunque, è che esiste dukkha, la
sofferenza.

Ciò non significa che tutto è dukkha, però. Se così fosse
non avrebbero ragion d'essere le altre verità nelle quali si afferma
il superamento di dukkha, la possibilità di andare oltre la
sofferenza. È pertanto un errore grossolano affermare che il
Buddha dichiarò che tutto è sofferenza. Si tratterebbe in questo
caso di un insegnamento totalmente pessimistico. Al contrario
il Buddha si fa portatore di una buona notizia, una grande
buona notizia: esiste la sofferenza, ma essa può essere riconosciuta,
capita e superata.

Allora, parte della prima nobile verità è anche che la sofferenza
va riconosciuta e compresa. E il riconoscimento di
dukkha è già un percorso, un progetto, un lavoro in sé, per
due motivi: anzitutto perché il significato di dukkha è molto
più ampio del significato della parola .sofferenza., ed esso va
scoperto, toccato, realizzato; in secondo luogo perché c.è dentro
di noi una forza, avijjá (l'ignoranza, la confusione), che
tende a nasconderci la profondità di dukkha e a conservare le
cose così come stanno. L.avijjá, è una forza in certo senso
molto intelligente: essa fa sì che noi non le si chieda: .Ma perchè
non vuoi che vada a vedere quanta sofferenza mi affligge?..
La risposta sarebbe: .Perché voglio che rimani così, così va
bene, non c'è da cercare altro, accontentati!..

Si noti che nelle scritture avijjá, l.ignoranza, è personifi-
cata da Mára, l'ostruttore, l'ostacolatore per eccellenza. Ed è
molto interessante e significativa la modalità con cui il Buddha
tratta con Mára: quando Mára si aggira tra i cespugli, il Buddha
si limita a dire: .Mára, ti ho visto.. E Mára fugge. .Ti ho visto.,
ossia l'importanza di vedere l.ostacolo, di vedere la nostra resistenza
a incontrare meglio e più profondamente la nostra sofferenza
e i modi con cui l.alimentiamo. .Mára, ti ho visto.,
altro non è se non la consapevolezza della nostra reattività. È
la consapevolezza calma del vedere qualcosa che non vuole
essere visto e che il solo movimento di vedere fa dileguare
(Mára che scappa).

Data, come si diceva, l'ampiezza del significato della parola,
nel parlare di sofferenza conviene allora mantenere il termine
dukkha, perché più adatto a coprire l'intero spettro, la
grande gamma della sofferenza, che va dalla più grande disperazione
al più piccolo disappunto, alla minima frustrazione.

Qualsiasi momento di disagio è considerato dukkha, e anche
quando tocchiamo con mano un pò. di agio, questo può rivelarsi
ancora una volta, in ultima analisi, dukkha, perché sappiamo
che non durerà, che è una condizione effimera, fragile.

Ma il sapere che fondamentalmente l'agio, la felicità, non dureranno
significa, allo stesso tempo, che siamo capaci di concepire
un agio che non finisce. Altrimenti non potremmo avere
un moto di delusione per un agio che, al contrario, finisce.
Ora in questa possibilità di concepire un agio incondizionato,
senza fine, risiede, evidentemente, un fondamento cruciale
della fiducia nella liberazione. Da notare che, al di là del cammino
spirituale, intuire la possibilità dell.infinito, appamana,
può derivarci anche da altre fonti, per esempio dalla natura o
dall.arte. Non sembra dunque trattarsi di una isolata .trovata.
spirituale.

E sebbene ci sia chi lo crede, non si tratta certo di
una reazione comune, altrimenti tali insegnamenti non si
sarebbero tramandati per secoli sull.onda di un interesse sempre
nuovo, ora anche da parte di chi . come gli scienziati . ha
sempre, al contrario, manifestato come minimo scetticismo nei
confronti di verità che non fossero quelle della scienza.

A parte questo spiraglio di luce (la capacità di concepire
un agio incondizionato), quando ci avviciniamo per la prima
volta al Dharma è comprensibile che non ci rallegri il sentire
parlare tanto di dukkha, ossia di una sofferenza ben più ampia
di quanto siamo abituati a pensare. Sofferenza con la quale,
inoltre, veniamo sollecitati ad entrare in contatto. Vedere la
sofferenza ed entrare in contatto con essa, se siamo agli inizi,
non può davvero suonarci allettante. Ma se proseguiamo nel
cammino, inevitabilmente si comincerà ad apprezzare l.onestà
e la verità del vedere quello che non si era in grado di vedere
prima.

Bisogna oltretutto tenere a mente che all.inizio l'accorgersi
di avere più paura di quella che si pensava di avere o di
provare più rabbia di quella che si pensava di provare non fa
piacere; una possibile reazione a questa constatazione è quella
di macerarsi nel dispiacere, aggiungendo così sofferenza a sofferenza.
Ma se non ci lasciamo intimorire e rimaniamo sul sentiero,
questa è una fase che . una volta avviata . lascia il posto
alla soddisfazione e alla contentezza di conoscere come stanno
veramente le cose, perché la verità rende liberi; pertanto dopo
il primo disappunto e un certo sconcerto, si direbbe che l.oggetto
del nostro lavoro diventa più chiaro, e la tendenza a illuderci
si attenua.

Riconoscere la verità di dukkha minutamente con gli strumenti
a disposizione, a cominciare dalla consapevolezza, ossia
dall. osservazione affettuosa e non giudicante, è un lavoro fine
e graduale: se così non fosse non potremmo arrivare alle radici.
Dunque non si tratta né di rimanere superficialmente sul
generico, né tanto meno di sfociare nell.ossessività e nella
pignoleria. Piuttosto, occorre imparare a dimorare il più possibile
nella chiarezza e nella precisione. Questo è il lavoro.
E per tornare al piccolo disappunto, alla piccola frustrazione
di cui si diceva, la cosa più importante è sviluppare una
certa abilità a vederli e a vedere,insieme con essi, il nostro giudizio
autosvalutante.

Infatti è frequente che noi si cada nella
svalutazione di noi stessi poiché . identificati con il nostro
ruolo di praticanti . abbiamo concluso, in modo più o meno
inappellabile, che non dovremmo più avere quel disappunto,
quella frustrazione! E l.ulteriore contributo alla sofferenza che
noi aggiungiamo attraverso questo giudizio svalutante va nella
direzione opposta a quella di un.osservazione affettuosa.
Poiché il giudizio, ossia la condanna compulsiva, è ancora più
pesante del disappunto e della frustrazione: se un disappunto
fosse solo un disappunto avremmo la possibilità di un atteggiamento
distintamente più leggero, non ci sarebbe quel carico
doloroso del giudizio che appesantisce il nostro camminare
e procedere nella vita generando, con ogni probabilità, nuovi
disappunti e, con essi, altri giudizi.

***



(di Corrado Pensa)

(seconda parte e fine)

--

Pertanto non si tratta solo di riconoscere e vedere, si tratta
altresì di vedere pienamente e affettuosamente, di comprendere,
di non alimentare e di lasciare andare la nostra contrazione.

Tutto questo non è facile, perché l.abitudine al disappunto
e al giudizio per il disappunto è molto forte, a tal segno
che - se non abbiamo sviluppato l'ottica della pratica -. essi
appaiono come un corpo unico, e non due momenti distinti e
separati.

Attraverso la pratica abbiamo invece l'opportunità di
imparare a distinguere questi due momenti : il disappunto e il
giudizio per il disappunto - e di lavorare ciò che è lavorabile,
ossia in particolare la reazione giudicante al disappunto. Poco,
infatti, possiamo fare sul moto di disappunto una volta arrivato,
mentre di più, molto di più, possiamo fare sulla reazione
ad esso. Proprio questa infatti costituisce il dukkha più insidioso,
giacché ,pensandolo come un tutt'.uno con l'accadimento,
ossia con il disappunto, non lo vediamo, bensì, semplicemente,
lo subiamo.

È questo un processo molto potente, soprattutto perché
molto veloce e abitudinario; ed è per questo che occorre un
tirocinio continuo per potersi porre davanti a tutto ciò nel
modo giusto. Come dice il Buddha:

"Ciò che è coperto marcisce, ciò che è svelato non marcisce,
perciò scoprite ciò che è coperto affinché esso non marcisca.
Udána, 5,5. 7"

Inoltre il riconoscimento e la comprensione di dukkha,
del disagio, ci rendono più forti. Il che è esattamente l'opposto
di ciò che insinua il nostro orgoglio, ossia che il riconoscimento
delle nostre debolezze, delle sofferenze, delle ottusità ci
rende più deboli, non solo davanti agli altri ma anche davanti a
noi stessi. Donde la diffusa strategia di far finta di niente, di
negare. Strategia che, in apparenza, sembra la cosa migliore,
mentre, invece, lavora attivamente alla nostra debilitazione
interiore.

Tra l'altro non vediamo molti dei disagi coperti anche
perché essi sono comuni e condivisi: e , secondo una famosa
immagine di R. Laing , se è un.intera formazione di aerei a
sbagliare rotta chi se ne accorge? È dunque una sorta di cecità
comune. E proprio in quanto comune e condivisa, anche
tranquillizzante. sotto certi punti di vista. Perché se nessuno
cambia . anche se non cambiare significa rimanere nel disagio
e nella sofferenza . nessuno in qualche modo metterà in
discussione la strada comune e condivisa e quindi nessuno ci
chiederà di cambiare.

Cambiare, infatti, fa paura così come
veder cambiare: in ultima analisi ciò che fa paura è abbandonare
un.abitudine. Perché l'abitudine . appunto in quanto abituale!
è tranquillizzante, e ad essa (anche per questo) attribuiamo
generalmente un gran valore.

Da questo comune non vedere, da questa cecità collettiva
e condivisa deriva forse quello che si legge nei Vangeli:

"Quanto è stretta la porta e angusta la via che porta alla vita, e
quanto pochi sono quelli che la trovano.
Matteo 7,13-14"

Proprio perché bisogna fare i conti con l'opinione comune
che si annida anche dentro di noi. Di questa opinionececità
comune fanno parte tra l'altro le nostre reazioni a brani
di questo genere, reazioni che possono prendere forme opposte
tra loro, come ad esempio:"..figurati se io appartengo a quei
pochi che prendono la via!., oppure, al contrario: ."...io, abituato
a stare sempre nel drappello dei primi, ci starò sicuramente!.."

Eppure non possiamo saperne assolutamente nulla. La cosa
che conta è lavorare, il resto è speculazione.

RICONOSCERE LA SOFFERENZA, OVVERO L'IMPORTANZA DEL VEDERE

Metterci in contatto con ciò che è vero, scoprire ciò che è
coperto, non solo costituiscono un passo fondamentale ma
sono anche un elemento di sollievo, perché rappresentano la
garanzia di un lavoro buono, non ingannevole; sono pertanto
una promessa di ciò che è contrario al disagio, di ciò che è
opposto alla sofferenza, e sono una promessa molto realistica,
molto concreta. Si tratta però di .fare pulizia.: cittabhávaná, il
nome in lingua páli di meditazione, significa proprio coltivazione
della mente-cuore, purificazione della mente-cuore perchè
al posto del disagio ci sia agio. Il lavoro di riconoscimento
della sofferenza si compie in virtù della quarta nobile verità,
ossia in virtù degli strumenti a disposizione, a cominciare dalla
meditazione, intesa sia come meditazione formale sia come
consapevolezza e osservazione affettuosa nella vita di tutti i
giorni.

Attraverso questo lavoro, abbiamo la possibilità di
cominciare a riconoscere la sofferenza e le sue cause (attaccamento,
avversione, paura, ignoranza), fino a quando ad un
certo punto comincia a prendere corpo uno spostamento, una
virata: ossia cresce l'interesse per lo strumento, per la lente,
per la consapevolezza, cresce l'interesse per il vedere e decresce,
invece, l'abituale e ipnotico interesse per i contenuti del
vedere.

Quando, all.inizio, in virtù della consapevolezza e del'attenzione,
cominciamo a cogliere i nostri contenuti mentali,
visivi e uditivi, essi tendono a catturare completamente il
nostro interesse.

Ma tale interesse rischia di trasformarsi in una
sorta di .coinvolgimento ruminante.; infatti, dopo il lampo di
consapevolezza che ci permette di vedere, per esempio, un
nodo di paura, l'attenzione spesso decade, la consapevolezza
scompare e cominciamo a essere coinvolti (impigliati, si direbbe)
nella proliferazione mentale intorno a quel nodo di paura,
proliferazione che semplicemente ingrossa il nodo stesso. Se,
a questo punto, si conclude che la cosa più importante è ciò
che vediamo e non la capacità di vedere, ciò significa che
siamo completamente usciti fuori dai binari della pratica. Ma
quando il lampo di consapevolezza non si spegne immediatamente,
allora cominciamo a renderci conto meglio di questa
presenza, di questa dimensione consapevole che placa e schiarisce
la mente.

Cosicché l.interesse, gradualmente, si sposta da
quello che vediamo e sentiamo alla possibilità (straordinaria,
ma data per scontata) di vedere e di sentire. Questo trasferimento
di interesse avviene anche in virtù di una salutare stanchezza
rispetto alla ripetitività dei nostri contenuti mentali e
della nostra abitudine a girarci intorno, raccontandoci le stesse
vecchie storie di sempre. Ed è proprio grazie allo strumento
della consapevolezza, alla possibilità cioè di vedere, che la
stanchezza non si tramuta in amarezza.

Vedere senza giudicare, osservare affettuosamente e tranquillamente
i contenuti della nostra mente, sentire quanto la
proliferazione intorno ad essi non porti alcun giovamento:
questi sono tutti elementi fondamentali perché diminuiscano
il desiderio e l'interesse ad alimentare e ingrossare i contenuti
del vedere, a vantaggio di un apprezzamento sempre più concreto
e reale della capacità stessa di vedere.

.LA MENTE CUSTODITA PORTA GIOIA.

Si tratta di una grande crescita, una crescita fondamentale
che, al contrario delle abitudini che sono automatiche e
velocissime, si realizza lentamente e gradualmente. Esiste
pertanto una disparità: Mára è fulmineo, la crescita è lenta e
graduale. Nonostante ciò, la lentezza smette di essere un fardello
nel momento in cui ci si rende conto che, di fatto, la
crescita avviene. E da ciò deriva e si rinsalda la motivazione
che è, per universale consenso, la chiave di volta del lavoro
interiore.

In una delle scritture più antiche, il Dhammapada, si
legge:

"La mente tremante, in continuo movimento, difficile da proteggere,
difficile da tenere a freno, il saggio mette in linea come
l.'arciere un dardo"

ossia in linea con la massima salutarità, salvezza, liberazione.

E ancora:

"È difficilmente visibile, è estremamente sottile la mente, vola
via a suo piacimento; il saggio, il praticante, la praticante,
deve proteggere la mente. La mente custodita porta gioia."

La buona notizia è che c'è la possibilità di una mente
custodita, protetta, curata. Perseguire la gioia lasciando la
mente allo stato brado è un.illusione, perseguirla con la mente
custodita e curata grazie alla pratica è una realtà. La pratica
infatti ci aiuta e ci insegna, in particolare e specificamente, a
custodire e proteggere la mente-cuore per permetterle di
manifestarsi in tutta la sua capacità.

E, a proposito di .capacità.interiore, viene in mente quella
affermazione propria della spiritualità cristiana:

"homo capax Dei."

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