(di Corrado Pensa)
(prima parte)
LE FONDAMENTA DEL DHARMA: LE QUATTRO NOBILI VERITÀ
Le quattro nobili verità costituiscono il fulcro dell.insegnamento del Buddha. Le quattro nobili verità (nobili perché conducono alla liberazione) sono le seguenti: la verità dell.esistenza di dukkha ovvero della sofferenza, la verità che dukkha è prodotta da cause (raccolte sotto i tre capitoli dell.attaccamento, dell.avversione-paura e della confusione-ignoranza), la verità che esiste la possibilità di porre fine alla sofferenza (o verità della liberazione, nirvana ) e infine la verità che esiste un cammino, un sentiero, un insieme di mezzi per lavorare a conseguire lo scopo, ossia il superamento della sofferenza.
Nelle scritture viene detto che le quattro nobili verità, che sono in un certo senso la sintesi del Dharma, sono belle all.inizio, belle a metà e belle alla fine; e altrettanto si dice del Dharma. Ma se non si è sviluppata una certa dimestichezza con il lavoro interiore e con la pratica, una simile affermazione può suonare come un. espressione poetica e nient.altro. Solo con il passare del tempo e col maturare della pratica ci potremo rendere conto, invece, della sua verità viva. Inoltre, nella tradizione del Dharma si afferma che ogni volta che . in un contesto di pratica . ascoltiamo discorsi, detti e riflessioni intorno alle quattro verità, in ognuna di queste occasioni si accresce la nostra capacità di comprenderle e di realizzarle. E anche questa è una verità che piano piano arriviamo a toccare con mano.
Infatti in virtù della pratica si diventa come più porosi, più ricettivi a questo tema fondamentale, e pertanto l.ascoltarlo ripetutamente è, insieme, effetto e causa di ulteriore approfondimento. Senza dimenticare che l.ascolto fa parte a tutti gli
effetti della pratica del Dharma. Inoltre, in un contesto di pratica, cominciano a farsi strada un udire e un percepire diversi: tali, cioè, che permettono una comprensione più profonda. D.altronde ciò che è di gran valore costa. Costa tempo ed energia. Inevitabilmente quindi anche la verità delle quattro nobili verità emerge molto gradualmente: da una nozione puramente dottrinaria e mentale passiamo alla percezione di una .cosa. sempre più reale.
ESISTE LA SOFFERENZA (E VA RICONOSCIUTA). IL LAVORO CON DUKKHA E AVIJJÁ
La prima nobile verità, dunque, è che esiste dukkha, la sofferenza.
Ciò non significa che tutto è dukkha, però. Se così fosse non avrebbero ragion d'essere le altre verità nelle quali si afferma il superamento di dukkha, la possibilità di andare oltre la sofferenza. È pertanto un errore grossolano affermare che il Buddha dichiarò che tutto è sofferenza. Si tratterebbe in questo caso di un insegnamento totalmente pessimistico. Al contrario il Buddha si fa portatore di una buona notizia, una grande buona notizia: esiste la sofferenza, ma essa può essere riconosciuta, capita e superata.
Allora, parte della prima nobile verità è anche che la sofferenza va riconosciuta e compresa. E il riconoscimento di dukkha è già un percorso, un progetto, un lavoro in sé, per due motivi: anzitutto perché il significato di dukkha è molto più ampio del significato della parola .sofferenza., ed esso va scoperto, toccato, realizzato; in secondo luogo perché c.è dentro di noi una forza, avijjá (l'ignoranza, la confusione), che tende a nasconderci la profondità di dukkha e a conservare le cose così come stanno. L.avijjá, è una forza in certo senso molto intelligente: essa fa sì che noi non le si chieda: .Ma perchè non vuoi che vada a vedere quanta sofferenza mi affligge?.. La risposta sarebbe: .Perché voglio che rimani così, così va bene, non c'è da cercare altro, accontentati!..
Si noti che nelle scritture avijjá, l.ignoranza, è personifi- cata da Mára, l'ostruttore, l'ostacolatore per eccellenza. Ed è molto interessante e significativa la modalità con cui il Buddha tratta con Mára: quando Mára si aggira tra i cespugli, il Buddha si limita a dire: .Mára, ti ho visto.. E Mára fugge. .Ti ho visto., ossia l'importanza di vedere l.ostacolo, di vedere la nostra resistenza a incontrare meglio e più profondamente la nostra sofferenza e i modi con cui l.alimentiamo. .Mára, ti ho visto., altro non è se non la consapevolezza della nostra reattività. È la consapevolezza calma del vedere qualcosa che non vuole essere visto e che il solo movimento di vedere fa dileguare (Mára che scappa).
Data, come si diceva, l'ampiezza del significato della parola, nel parlare di sofferenza conviene allora mantenere il termine dukkha, perché più adatto a coprire l'intero spettro, la grande gamma della sofferenza, che va dalla più grande disperazione al più piccolo disappunto, alla minima frustrazione.
Qualsiasi momento di disagio è considerato dukkha, e anche quando tocchiamo con mano un pò. di agio, questo può rivelarsi ancora una volta, in ultima analisi, dukkha, perché sappiamo che non durerà, che è una condizione effimera, fragile.
Ma il sapere che fondamentalmente l'agio, la felicità, non dureranno significa, allo stesso tempo, che siamo capaci di concepire un agio che non finisce. Altrimenti non potremmo avere un moto di delusione per un agio che, al contrario, finisce. Ora in questa possibilità di concepire un agio incondizionato, senza fine, risiede, evidentemente, un fondamento cruciale della fiducia nella liberazione. Da notare che, al di là del cammino spirituale, intuire la possibilità dell.infinito, appamana, può derivarci anche da altre fonti, per esempio dalla natura o dall.arte. Non sembra dunque trattarsi di una isolata .trovata. spirituale.
E sebbene ci sia chi lo crede, non si tratta certo di una reazione comune, altrimenti tali insegnamenti non si sarebbero tramandati per secoli sull.onda di un interesse sempre nuovo, ora anche da parte di chi . come gli scienziati . ha sempre, al contrario, manifestato come minimo scetticismo nei confronti di verità che non fossero quelle della scienza.
A parte questo spiraglio di luce (la capacità di concepire un agio incondizionato), quando ci avviciniamo per la prima volta al Dharma è comprensibile che non ci rallegri il sentire parlare tanto di dukkha, ossia di una sofferenza ben più ampia di quanto siamo abituati a pensare. Sofferenza con la quale, inoltre, veniamo sollecitati ad entrare in contatto. Vedere la sofferenza ed entrare in contatto con essa, se siamo agli inizi, non può davvero suonarci allettante. Ma se proseguiamo nel cammino, inevitabilmente si comincerà ad apprezzare l.onestà e la verità del vedere quello che non si era in grado di vedere prima.
Bisogna oltretutto tenere a mente che all.inizio l'accorgersi di avere più paura di quella che si pensava di avere o di provare più rabbia di quella che si pensava di provare non fa piacere; una possibile reazione a questa constatazione è quella di macerarsi nel dispiacere, aggiungendo così sofferenza a sofferenza. Ma se non ci lasciamo intimorire e rimaniamo sul sentiero, questa è una fase che . una volta avviata . lascia il posto alla soddisfazione e alla contentezza di conoscere come stanno veramente le cose, perché la verità rende liberi; pertanto dopo il primo disappunto e un certo sconcerto, si direbbe che l.oggetto del nostro lavoro diventa più chiaro, e la tendenza a illuderci si attenua.
Riconoscere la verità di dukkha minutamente con gli strumenti a disposizione, a cominciare dalla consapevolezza, ossia dall. osservazione affettuosa e non giudicante, è un lavoro fine e graduale: se così non fosse non potremmo arrivare alle radici. Dunque non si tratta né di rimanere superficialmente sul generico, né tanto meno di sfociare nell.ossessività e nella pignoleria. Piuttosto, occorre imparare a dimorare il più possibile nella chiarezza e nella precisione. Questo è il lavoro. E per tornare al piccolo disappunto, alla piccola frustrazione di cui si diceva, la cosa più importante è sviluppare una certa abilità a vederli e a vedere,insieme con essi, il nostro giudizio autosvalutante.
Infatti è frequente che noi si cada nella svalutazione di noi stessi poiché . identificati con il nostro ruolo di praticanti . abbiamo concluso, in modo più o meno inappellabile, che non dovremmo più avere quel disappunto, quella frustrazione! E l.ulteriore contributo alla sofferenza che noi aggiungiamo attraverso questo giudizio svalutante va nella direzione opposta a quella di un.osservazione affettuosa. Poiché il giudizio, ossia la condanna compulsiva, è ancora più pesante del disappunto e della frustrazione: se un disappunto fosse solo un disappunto avremmo la possibilità di un atteggiamento distintamente più leggero, non ci sarebbe quel carico doloroso del giudizio che appesantisce il nostro camminare e procedere nella vita generando, con ogni probabilità, nuovi disappunti e, con essi, altri giudizi.
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(di Corrado Pensa)
(seconda parte e fine)
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Pertanto non si tratta solo di riconoscere e vedere, si tratta altresì di vedere pienamente e affettuosamente, di comprendere, di non alimentare e di lasciare andare la nostra contrazione.
Tutto questo non è facile, perché l.abitudine al disappunto e al giudizio per il disappunto è molto forte, a tal segno che - se non abbiamo sviluppato l'ottica della pratica -. essi appaiono come un corpo unico, e non due momenti distinti e separati.
Attraverso la pratica abbiamo invece l'opportunità di imparare a distinguere questi due momenti : il disappunto e il giudizio per il disappunto - e di lavorare ciò che è lavorabile, ossia in particolare la reazione giudicante al disappunto. Poco, infatti, possiamo fare sul moto di disappunto una volta arrivato, mentre di più, molto di più, possiamo fare sulla reazione ad esso. Proprio questa infatti costituisce il dukkha più insidioso, giacché ,pensandolo come un tutt'.uno con l'accadimento, ossia con il disappunto, non lo vediamo, bensì, semplicemente, lo subiamo.
È questo un processo molto potente, soprattutto perché molto veloce e abitudinario; ed è per questo che occorre un tirocinio continuo per potersi porre davanti a tutto ciò nel modo giusto. Come dice il Buddha:
"Ciò che è coperto marcisce, ciò che è svelato non marcisce, perciò scoprite ciò che è coperto affinché esso non marcisca. Udána, 5,5. 7"
Inoltre il riconoscimento e la comprensione di dukkha, del disagio, ci rendono più forti. Il che è esattamente l'opposto di ciò che insinua il nostro orgoglio, ossia che il riconoscimento delle nostre debolezze, delle sofferenze, delle ottusità ci rende più deboli, non solo davanti agli altri ma anche davanti a noi stessi. Donde la diffusa strategia di far finta di niente, di negare. Strategia che, in apparenza, sembra la cosa migliore, mentre, invece, lavora attivamente alla nostra debilitazione interiore.
Tra l'altro non vediamo molti dei disagi coperti anche perché essi sono comuni e condivisi: e , secondo una famosa immagine di R. Laing , se è un.intera formazione di aerei a sbagliare rotta chi se ne accorge? È dunque una sorta di cecità comune. E proprio in quanto comune e condivisa, anche tranquillizzante. sotto certi punti di vista. Perché se nessuno cambia . anche se non cambiare significa rimanere nel disagio e nella sofferenza . nessuno in qualche modo metterà in discussione la strada comune e condivisa e quindi nessuno ci chiederà di cambiare.
Cambiare, infatti, fa paura così come veder cambiare: in ultima analisi ciò che fa paura è abbandonare un.abitudine. Perché l'abitudine . appunto in quanto abituale! è tranquillizzante, e ad essa (anche per questo) attribuiamo generalmente un gran valore.
Da questo comune non vedere, da questa cecità collettiva e condivisa deriva forse quello che si legge nei Vangeli:
"Quanto è stretta la porta e angusta la via che porta alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano. Matteo 7,13-14"
Proprio perché bisogna fare i conti con l'opinione comune che si annida anche dentro di noi. Di questa opinionececità comune fanno parte tra l'altro le nostre reazioni a brani di questo genere, reazioni che possono prendere forme opposte tra loro, come ad esempio:"..figurati se io appartengo a quei pochi che prendono la via!., oppure, al contrario: ."...io, abituato a stare sempre nel drappello dei primi, ci starò sicuramente!.."
Eppure non possiamo saperne assolutamente nulla. La cosa che conta è lavorare, il resto è speculazione.
RICONOSCERE LA SOFFERENZA, OVVERO L'IMPORTANZA DEL VEDERE
Metterci in contatto con ciò che è vero, scoprire ciò che è coperto, non solo costituiscono un passo fondamentale ma sono anche un elemento di sollievo, perché rappresentano la garanzia di un lavoro buono, non ingannevole; sono pertanto una promessa di ciò che è contrario al disagio, di ciò che è opposto alla sofferenza, e sono una promessa molto realistica, molto concreta. Si tratta però di .fare pulizia.: cittabhávaná, il nome in lingua páli di meditazione, significa proprio coltivazione della mente-cuore, purificazione della mente-cuore perchè al posto del disagio ci sia agio. Il lavoro di riconoscimento della sofferenza si compie in virtù della quarta nobile verità, ossia in virtù degli strumenti a disposizione, a cominciare dalla meditazione, intesa sia come meditazione formale sia come consapevolezza e osservazione affettuosa nella vita di tutti i giorni.
Attraverso questo lavoro, abbiamo la possibilità di cominciare a riconoscere la sofferenza e le sue cause (attaccamento, avversione, paura, ignoranza), fino a quando ad un certo punto comincia a prendere corpo uno spostamento, una virata: ossia cresce l'interesse per lo strumento, per la lente, per la consapevolezza, cresce l'interesse per il vedere e decresce, invece, l'abituale e ipnotico interesse per i contenuti del vedere.
Quando, all.inizio, in virtù della consapevolezza e del'attenzione, cominciamo a cogliere i nostri contenuti mentali, visivi e uditivi, essi tendono a catturare completamente il nostro interesse.
Ma tale interesse rischia di trasformarsi in una sorta di .coinvolgimento ruminante.; infatti, dopo il lampo di consapevolezza che ci permette di vedere, per esempio, un nodo di paura, l'attenzione spesso decade, la consapevolezza scompare e cominciamo a essere coinvolti (impigliati, si direbbe) nella proliferazione mentale intorno a quel nodo di paura, proliferazione che semplicemente ingrossa il nodo stesso. Se, a questo punto, si conclude che la cosa più importante è ciò che vediamo e non la capacità di vedere, ciò significa che siamo completamente usciti fuori dai binari della pratica. Ma quando il lampo di consapevolezza non si spegne immediatamente, allora cominciamo a renderci conto meglio di questa presenza, di questa dimensione consapevole che placa e schiarisce la mente.
Cosicché l.interesse, gradualmente, si sposta da quello che vediamo e sentiamo alla possibilità (straordinaria, ma data per scontata) di vedere e di sentire. Questo trasferimento di interesse avviene anche in virtù di una salutare stanchezza rispetto alla ripetitività dei nostri contenuti mentali e della nostra abitudine a girarci intorno, raccontandoci le stesse vecchie storie di sempre. Ed è proprio grazie allo strumento della consapevolezza, alla possibilità cioè di vedere, che la stanchezza non si tramuta in amarezza.
Vedere senza giudicare, osservare affettuosamente e tranquillamente i contenuti della nostra mente, sentire quanto la proliferazione intorno ad essi non porti alcun giovamento: questi sono tutti elementi fondamentali perché diminuiscano il desiderio e l'interesse ad alimentare e ingrossare i contenuti del vedere, a vantaggio di un apprezzamento sempre più concreto e reale della capacità stessa di vedere.
.LA MENTE CUSTODITA PORTA GIOIA.
Si tratta di una grande crescita, una crescita fondamentale che, al contrario delle abitudini che sono automatiche e velocissime, si realizza lentamente e gradualmente. Esiste pertanto una disparità: Mára è fulmineo, la crescita è lenta e graduale. Nonostante ciò, la lentezza smette di essere un fardello nel momento in cui ci si rende conto che, di fatto, la crescita avviene. E da ciò deriva e si rinsalda la motivazione che è, per universale consenso, la chiave di volta del lavoro interiore.
In una delle scritture più antiche, il Dhammapada, si legge:
"La mente tremante, in continuo movimento, difficile da proteggere, difficile da tenere a freno, il saggio mette in linea come l.'arciere un dardo"
ossia in linea con la massima salutarità, salvezza, liberazione.
E ancora:
"È difficilmente visibile, è estremamente sottile la mente, vola via a suo piacimento; il saggio, il praticante, la praticante, deve proteggere la mente. La mente custodita porta gioia."
La buona notizia è che c'è la possibilità di una mente custodita, protetta, curata. Perseguire la gioia lasciando la mente allo stato brado è un.illusione, perseguirla con la mente custodita e curata grazie alla pratica è una realtà. La pratica infatti ci aiuta e ci insegna, in particolare e specificamente, a custodire e proteggere la mente-cuore per permetterle di manifestarsi in tutta la sua capacità.
E, a proposito di .capacità.interiore, viene in mente quella affermazione propria della spiritualità cristiana:
"homo capax Dei."
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