- L'olocausto tibetano -
La Cina ha invaso il Tibet col suo "esercito di liberazione" nel 1950. Tra il 1950 e il 1980, a causa dell'occupazione cinese sono morti due milioni di tibetani.
Durante i cinquantasette anni di occupazione militare, i cinesi hanno demolito circa seimila fra monasteri, templi e monumenti artistici, nella antichissima ex capitale, Lhasa, e in ogni angolo del Paese.
Quella del Tibet è la storia di una nazione e una di religione, il buddismo, fra le più antiche, ricche e profonde dell'Umanità. Che Mao ha potuto annettersi in quanto -secondo lui- provincia cinese senza quasi incontrare resistenza: da molti secoli i tibetani non avevano un vero esercito. E non per caso: quella del Tibet è stata, fino al 1950, l'unica teocrazia reale al mondo. In Tibet il Dalai Lama (l'equivalente del Papa) oltre che guida spirituale era anche leader politico (infatti Tenzin Gyatso, il Dalai Lama riconosciuto alla sua quattordicesima reincarnazione, è ora a capo del governo tibetano in esilio, che l'India ospita dal 1959 nella città di Dharamsala).
Sintetizzando, da parte dei buddisti tibetani i valori (anche) cristiani di porgere l'altra guancia, amare il proprio peggior nemico e fare agli altri quello si vorrebbe fatto a se stessi, sono sentiti, e seguiti, in modo sincero, profondo, concreto e completo. Al punto che il popolo tibetano nel suo insieme rappresenta forse l'unico esempio di vero Pacifismo di massa nella Storia.
Per questo non c'era nessun esercito a proteggere il popolo tibetano, quando Mao, appena salito al potere in Cina, decise di invadere il Tibet; e nessun soldato a opporsi ai massacri, le torture, i genocidi, la pulizia etnica e "culturale", che Pechino ha perpetrato fino a oggi indisturbata.
I cinesi per il Tibet hanno rappresentato un disastro di proporzioni universali: distrutta la struttura sociale (la popolazione del Tibet è attualmente stimata in 6,5 milioni di tibetani, contro gli oltre sette milioni di "coloni" cinesi forzatamente insediati da Pechino); distrutta la cultura, i valori millenari e la religione (alla popolazione tibetana è stata negata la pratica del Buddhismo e imposta la lingua cinese); distrutti i monumenti, le opere d'arte e la natura. Perchè il Tibet non è solo il più grande serbatoio di acqua del continente asiatico (vi nascono il Bhramaputra, lo Yang tse Kyang, l'Indo e il Mekong), i cui corsi d'acqua stati deviati per costruire dighe e centrali idroelettriche che riforniscono di elettricità la Cina. Prima che arrivasse il "comunismo" pechinese, infatti, la regione - grande cinque volte la Francia - ospitava sui suoi altipiani oltre 10 mila specie di piante, e immense foreste millenarie di conifere, querce e betulle (tutte classificate "primarie", cioè mai toccate dall'uomo): 220 mila km quadri ridotti 134 mila dalla più scellerata deforestazione selvaggia e senza alcun'opera di rimboschimento.
Analoga, orrenda, sorte è toccata alla fauna: centodiciotto specie di mammiferi, cinquecento di volatili, quarantanove di rettili e sessantuno di pesci. Tutte specie presenti soltanto in Tibet, e che per i soldati cinesi rappresentano solo bersagli da caccia sportiva: durante i "safari", regolarmente organizzati per gli ufficiali, per trentamila dollari è possibile abbattere un panda o lo "zong" (yak selvatico), la scimmia dorata o la gru dal collo nero, tutte specie ormai rarissime.
Come se non bastasse, poi, il rapporto Nuclear Tibet, pubblicato dall'International Campaign for Tibet a cura dello statunitense John Ackerly, documenta la presenza di un grande centro di ricerca, qualche chilometro a est del lago Kokonor, in cui sarebbero state realizzate le prime armi nucleari di Pechino. Mentre la zona circostante e le acque del lago sono con ogni probabilità usate come discarica per rifiuti radioattivi.
Un olocausto, appunto. Iniziato con un'azione militare unilaterale, un'aggressione deliberata, proditoria e totalmente priva di ogni giustificazione anche pretestuosa (soprattutto alla luce dei trattati internazionali di non aggressione sottoscritti dal governo cinese dal dopoguerra a oggi). Un'invasione di fronte alla quale Nazioni Unite e Occidente non solo non hanno mai mosso un dito, ma su cui hanno fatto cadere la tipica cortina del silenzio dei conniventi. Soprattutto perché il popolo tibetano e il suo capo, l'allora giovanissimo Tenzin Gyatso, dopo un flebile tentativo di resistenza hanno scelto la via della non violenza, secondo il principio - basilare per chi nella religione crede sul serio - che nessuna vera pace possa nascere da una guerra. Questo genere di scelta, di non armarsi e combattere, ha reso la causa del Tibet del tutto priva di valore sul piano del business, più potente motore e miglior carburante di ogni guerra. Nessuna resistenza, niente armi da vendere, nessun profitto. E nessun intervento (meno male, viene da dire di questi tempi).
Ma anche in una tragedia di proporzioni tanto immani, e lunga quasi sessant'anni, la dignità e la coerenza, la pulizia e integrità morale, dimostrate dal popolo tibetano e dalla sua guida, il Dalai Lama, sono sempre state esemplari.
Servendosi del dialogo e della «Compassione» verso il nemico (principio cardine del buddismo) come uniche armi, hanno resistito fino a oggi. Trovando nelle atrocità subite dall'invasore e nell'esilio forzato una grande occasione, altrimenti impensabile, e di cui essere grati al loro karma, il destino: quella di poter condividere la visione buddista dei principi di amore, e fratellanza (diremmo noi), con i popoli del resto del mondo.
E visto quello che noi cristiani «buoni e giusti» abbiamo fatto in nome del nostro Buddha, Gesù Cristo, pare ce ne sia davvero bisogno.
Rimane la speranza che di fianco a chi smania e spinge per vedere la Cina entrare dentro il Wto (e al di sopra di chi, da Pechino, non fa altro che cantare con sciocca e malcelata ammirazione le lodi della potenza cinese), si alzi qualcuno a chiedere che la Cina esca fuori dal Tibet. (red.is)
|