Nascere e morire donne in India
(di Serena Penagini)
Nel codice Manu, trattato legale datato tra il II secolo a. C. e il II secolo d. C., è scritto che la donna non deve mai essere lasciata da sola, ma sotto tutela dell'uomo.
Tradizionalmente il popolo indiano è prettamente maschilista, la donna non è altro che un'eterna inferiore; dipende prima dal padre, poi dal marito e infine dai figli.
La donna deve sposarsi, è il suo "compito"; i matrimoni sono stipulati dai genitori e gli sposi spesso sono scelti attraverso brevi trafiletti sui giornali.
Molte famiglie per procurare alle figlie uno sposo che le rispetti (e che si rispetti) devono sborsare, come dote, cifre superiori alle proprie possibilità, indebitandosi per intere generazioni. Non solo, accade spesso che suocere e mariti, insoddisfatti della dote ricevuta, si sbarazzino delle mogli, simulando incidenti domestici, liberandosi così dal vincolo del matrimonio; altre volte, giovani donne, esasperate dalle pressioni della famiglia, vengono spinte al suicidio.
Inoltre, la donna, dal punto di vista religioso, non ha nessuna possibilità di salvezza, di conseguire direttamente il moksa (la salvezza), ma deve garantirsi, con i propri doveri di moglie devota, la rinascita come uomo per poter finalmente intraprendere il cammino per la libertà.
Poiché il sistema delle caste indiano non concede spazio al singolo in quanto tale, esso è considerato in rapporto alla sua funzione; quando quest'ultima viene meno l'individuo è svalorizzato al punto di essere emarginato e/o estromesso dal contesto sociale.
E' proprio quanto, ad esempio, accade alle vedove che, perdendo con la morte del marito la loro ragione d'essere quali spose, finiscono per non avere più alcuna collocazione nella società e nella famiglia.
Sottoposte a violenze psicologiche, quali l'allontanamento dai figli, la proibizione di risposarsi e la sottrazione dei gioielli di nozze, le donne indossano sari (tradizionale veste) bianchi, si coprono il capo, quando non è rasato, e trovano l'unica consolazione nella religione.
Ad esempio, a Vrindavan, più di 500 vedove trovano rifugio nel "Bhagvan Bhajan Ashram", dove, cantando per 8 ore al giorno inni sacri a Krishna, ricevono 250 grammi di riso, 50 grammi di dhal (legumi) e 10 rupie (circa 500 lire). Alla sera si ritirano a gruppi in sordide stanze in attesa di una grazia che non arriverà mai.
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