Come stai?
(di Chandravimale Candiani)
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Un amico è un dio che lo manda. (Jean Monod)
Da molti anni il mio compagno ha un amico. Si chiama Battista. È cieco dalla nascita. Compone musica elettronica. È un instancabile esecutore di Bach e insegna pianoforte al Conservatorio serale, per i lavoratori che amano la musica.
È uno dei pochi che quando telefonano, e rispondo io, chiede: "Come stai?" e lo chiede veramente.
Fino a maggio fumava tantissime sigarette. Ha il cuore fatto di musica, e una mente assolutamente politica, così politica che si arrabbia da solo, da solo discute, e si risponde.
Delle nostre esperienze in India e del successivo incontro col Dharma ha sempre, elegantemente, taciuto.
In ottobre, Battista è scomparso. Non lo trovavamo al telefono e la casa era vuota. Abbiamo scoperto che era all'ospedale di zona, con un'ombra nel polmone destro. Dopo la TAC, abbiamo saputo dal medico che ha il cancro ai polmoni, alle ossa, e alla zona surrenale, prognosi dai quindici giorni ai due mesi di vita.
Quando l'ho saputo, sono stata zitta, non solo fuori, anche dentro, zitta. E se qualcosa in me cercava di pensare, un'altra parte, morbida, senza severità, diceva solo: "Sss, sss, stai ferma".
Di notte sono arrivati i ricordi. La fragilità del corpo. Il buio.
L'amicizia. Il corpo degli amici. La mente degli amici. Gli amici.
L'estate scorsa, nel ritiro di ventun giorni, a Barza d'Ispra, avevo sentito una solitudine assoluta e irrimediabile, una condizione dell'essere, non un sentimento. Ogni giorno, nella metta, chiedevo amici, amici sinceri, nobili, liberi, amici.
Tornando, avevo cominciato a guardare con occhi diversi ai pochi amici già esistenti, anziché aspettarne di nuovi. E Battista?
I medici hanno deciso di non dirgli niente, forse credendo che i ciechi siano anche non vedenti, o forse perché ne hanno intuito la fragilità, o il suo vivere in un altro mondo, o forse perché è spacciato, troppo grave per essere salvato, troppo cieco per essere preparato.
Lui non chiedeva mai niente, c'erano indizi, tante piccole piste da seguire. Niente, imboccava sempre l'autostrada della menzogna. Non chiedeva, parlava d'altro. Hanno deciso per la chemioterapia, hanno deciso di chiamarla, con lui, terapia di antibiotici. Sentivo la ribellione montarmi dentro, sentivo degli urli così: "No! No! No!" e sentivo ancora un morbido: "Sss, sss, sss, stai ferma".
Battista è tornato a casa dopo il primo ciclo di chemio, il secondo l'avrebbe fatto a domicilio. La sua casa è una sola stanza, tutta occupata da un enorme pianoforte a coda e da apparecchiature elettroniche, con un piccolo soppalco per il letto in cima a una ripida scaletta: la casa di un uccello che insegna musica. Ho cominciato ad andare da lui tutti i giorni.
Pensavo: "Se me lo chiede, glielo dico. Non hanno il diritto di amministrare la morte della gente". Ero piena di arroganza, e sicurissima di sapere come stavano le cose.
Battista era debolissimo. Aveva paura di addormentarsi da solo. Io con lui ho sempre parlato poco, in generale parlo poco con chi usa molto la razionalità, non sono capace. Però stavo lì, guardavo per aria, ascoltavo il mio respiro, cercavo un modo non verbale per entrare in contatto con lui. Ma non è facile. Un cieco si distrae molto meno di un guardante
(Battista ci ha sempre chiamato così: i guardanti; i vedenti, dice, sono un'altra cosa, che non ha a che fare con l'essere o non essere orbi (sic!)). Non si può guardare niente insieme, si può ascoltare, ma lui la musica non la voleva più, teneva solo sempre accesa una noiosa radio politica.
Poi mi è venuto in mente che, sempre l'estate scorsa, quando Steven aveva guidato una meditazione di karuna, compassione, avevo sentito difficoltà a sintonizzare il cuore, precisamente, su quella nota; mi sembrava difficile, finivo sempre sull'onda di metta o di mudita, forse perché mi sembrava di conoscere tanta gente a cui augurare di essere libera dalla sofferenza sarebbe parso un dispetto, perché il lamento sembra la loro identità.
Poi mi ero vista seduta vicino a un'amica disperata fino alla follia, anni fa, senza dirle niente, incapace di consolarla, ma stabilmente seduta sul divano vicino a lei. Ero rimasta seduta lì, tutto il pomeriggio e gran parte della notte, come un sasso, sentendomi stupida e impotente, ma anche ben decisa a non mollare. Alla fine, lei ne era uscita da sola, piangendo dolcemente.
Allora, avevo chiesto a Steven: "Karuna è stare seduta vicino a un amico malato, senza dire niente? Non riesco a sentire altro". E Steven aveva risposto: "Comincia da lì. Non cercare di essere perfetta".
Eccomi adesso, seduta in silenzio vicino al mio amico malato, ed ecco cosa posso fare: non cercare di essere perfetta. E sussurrare: "Che tu possa essere libero dalla sofferenza". Ma chi è tu? Dov'è il contatto? Dove finisco io e cominci tu?
Allora, gli ho detto: "Battista, posso farti una cosa orientale, che è mettere le mani dove ti fa male e stare lì e al massimo non succede niente, oppure hai un po' di sollievo?".
"È cinese?" ha detto lui.
Mannaggia, - ho pensato - ancora la politica. "Abbastanza, - ho risposto - ma anche un po' tibetana". Aiuto! Silenzio.
"Dai! Tanto cosa ci perdo?".
Contatto avvenuto. Contatto! Sono salita al suo nido di magrissimo uccello, e ho messo le mani sulla zona del suo polmone destro. Si muoveva tutto, scariche elettriche, spilli, piccole contrazioni. "Ma... hai sentito?" diceva Battista.
"Sì...". Silenzio. Respiravo con lui. Sono uscita stanchissima, con l'impressione di aver fumato un sacco di sigarette.
Il giorno dopo, abbiamo ricominciato.
E il terzo giorno, gli ho chiesto: "Cosa vedi?", mentre avevo le mani sul suo polmone, ma con lo stesso tono con cui io e mio fratello ce lo chiedevamo da bambini, sdraiati nel buio.
"Una specie di massa simile a una pera nel polmone destro" ha detto Battista, il medico parlava di neoplasia, delle dimensioni più o meno di una mela.
Un giorno l'abbiamo bombardata, un altro giorno le abbiamo mandato la musica. Ero contenta del fatto che adesso lui sapesse, nel suo modo di un altro mondo, ma sapesse.
Però mi sentivo sempre più stanca, e temevo anche che lui potesse crearsi delle speranze inutili, sentendo diminuire i dolori, e inoltre sembrava dipendente dal contatto. Sentivo, sempre di più, che non erano le false speranze che volevo regalargli, ma un contatto con sé, qualsiasi cosa succeda, in qualsiasi situazione, perché questo era il dono che il Dharma aveva fatto a me. Ogni giorno ero combattuta: cosa gli dico adesso, come gli propongo di ascoltare il respiro insieme?
Una mattina, ho minciato così: "Battista, siccome, magari, certi giorni, io non posso venire, posso insegnarti a rilassare il corpo? Solo perché, così, anche se hai dolore, almeno non vi aggiungi il dolore della tensione?".
"Mmm, come si chiama?".
"Niente. Io nomino varie parti del corpo, dalla testa ai piedi, e noi portiamo l'attenzione lì".
"Mmm".
Dopo un po': "Strano, tu nomini una parte, e quella si riscalda".
"Non si scalda perché io la nomino, ma perché tu porti lì l'attenzione. È l'attenzione che fa tutto".
Poi abbiamo scoperto il punto della pancia, dove lui percepiva meglio il suo respiro, e allora lui ha detto: "Scusa, hai detto di stare con l'attenzione in quel punto, e beccare l'inizio di ispirazione e espirazione e di tenerci l'attenzione, ma se parli, come faccio? Ho capito, stai zitta".
Glug, glug, vitakka e vichara, per lui è così semplice? Io ci ho messo ritiri e ritiri, cassette su cassette di Corrado (Pensa). Siamo stati così almeno mezz'ora.
Il giorno dopo abbiamo ricominciato. Ma, a un certo punto, è passato un camion, e si è fermato, col motore acceso, proprio sotto la sua finestra, a pianterreno.
Battista è schizzato seduto sul letto, urlando: "Ma lo senti, lo senti quel deficiente?".
"Battista, rimettiti giù, e vai a vedere cosa sta succedendo nella pancia". Silenzio.
Poi: "Che caos! Si muove tutto. Come fuoco! Un vulcano. Cos'è?".
"La rabbia per il camion. Sentila tutta e lasciala andare. Dopo possiamo fare qualcosa, magari parlo io col portinaio. Intanto, sentila".
"Si è calmata".
"Se ne è andato anche il camion".
"Però questo non c'entra".
"Certo, non c'entra".
Dopo un po' di giorni, non trovo una cosa in casa e dico a B.: "Allora, me la dai, o mi dici dov'è?".
Hei, calma! Lo sai che adesso a me piace muovermi piano e sentire cosa succede dentro! Calma, eh!".
"Davvero?".
"Sì, quella roba col respiro la faccio sempre".
"Si chiama vipassana".
"Va be'".
Qualche giorno dopo, gli ho detto: "Il Buddha era ateo". Gli si è illuminata la faccia. "Davvero?" Abbiamo cominciato a parlare, del Buddha, della vipassana, dei monaci della foresta, non troppo, solo un po'. Non volevo convertirlo, solo che non pensasse che mi ero inventata tutto io, che ero un tale genio da poter far sentire i camion nella pancia delle persone.
A dicembre, i due mesi di vita erano passati, ma B. reggeva, non bene, ma reggeva, anche alla chemio. Anche il tumore reggeva, anzi le radiografie dicevano che si era espanso. Abbiamo deciso di restare a Milano con lui, anche se di solito il Natale ci fa sentire così soli qui. Ci siamo concessi solo quattro giorni di ritiro con Corrado. Al ritorno, il giornalaio, che a furia di fare da persona neutra nella metta, è diventato mio amico, mi ha detto: "Corri all'ospedale da Battista, ha avuto la peritonite, sta malissimo, corri se lo vuoi rivedere".
L'ho trovato pieno di cannucce, magro magro, circondato dalla sua solita decina di amici, che parlavano d'altro e lo tiravano su: "Perché non ascolti musica?". "L'importante è distrarsi". "Pensa ad altro, Battista".
Quando gli ho chiesto come stava, ha detto: "Da cani, non tengo giù il cibo". Non sapevo dirgli niente, ho cominciato ad accarezzargli la spalla, pianissimo, come a una farfalla, e a sentirmi dolcemente inutile, perché questo lui ti fa scoprire, sentirsi inutili e amici.
Sono arrivate altre persone, e di colpo, lui ha detto, furente: "Avete finito con questa sfilata? Cosa venite a vedere? Mi togliete l'aria".
Battista è sempre stato rude, ma guai a toccargli gli amici. Così, ho capito che non ce l'aveva con noi, ma era finito il tempo delle menzogne, stava entrando dentro di sé, non poteva perdere il filo.
Gli ho detto: "Vuoi che me ne vada?", mentre gli altri si congedavano in fretta.
"Quanti siete?".
"Due".
"Resta".
Sono stata sempre lì zitta. Le parole mi abbandonavano.
Un giorno dormiva e ho potuto guardarlo, vegliargli il sonno, come a un bambino nella foresta, mi sentivo il suo guardiano, e sussurravo: "Che tu sia libero dalla sofferenza, che tu possa soffrire il meno possibile, che tu possa riposare, riposare".
Si è svegliato freschissimo. "Siete stati qui tutto il tempo, tu e Dip, mentre dormivo?" sembrava che gli avessimo fatto il regalo più prezioso, la migliore delle compagnie.
Desideravo parlargli di metta, potergli dire che ci si può augurare di stare bene, di essere felici, che ci si può sorridere da soli. Ma come potevo fare, lui inorridisce di tutto quello che è anche solo vagamente spirituale, soprattutto quando è verbale. Mi sono ricordata che una volta avevo detto a Fred Von Almen che la metta mi faceva l'effetto di spumante al posto del sangue e lui aveva sorriso e fatto segno di sì, e Steven mi aveva detto che le parole servono solo per chiamarla la metta, poi si può stare col suo sentimento senza dir niente. Allora ci ho provato.
Ho detto: "Bat, ti ricordi la cosa del respiro?".
"Mmm, la faccio sempre".
"Sai, certe volte, puoi sentire che dal punto della pancia dove senti meglio il respiro, da lì, puoi sentire come se fosse una fonte e si irradiasse qualcosa come bollicine di spumante, che vanno in tutto il corpo e lo fanno sentire bene, e puoi dire: che io possa stare bene, avere salute e forza...".
"Mmm".
Silenzio. Dopo un po': "No, non è spumante, è come l'acqua dei torrenti, quella cosa fresca che si sente in montagna vicino ai torrenti. La conosci?".
"Sì, Bat".
"Le frasi però non le dico, non c'è bisogno".
Sono passati altri giorni, ogni tanto mi sedevo da sola, vicino al suo letto, e lui diceva: "Stai mandando?".
"Sì" rispondevo.
"Lo sento" diceva lui.
È bello stare seduti vicino a lui. Non c'è retorica. Solo semplicità. E lo conosco sempre di più e sempre meglio: ho capito la sua capacità di guardare dentro gli abissi, senza volere appigli, il suo sacro ateismo, il suo coraggio di restare fragile tutta la vita, la sua arte della fuga, e il suo coraggio di sperimentare qualcosa di nuovo, purchè non sia consolatorio. E mi dico: che io possa sapere ogni giorno di essere inutile, che io possa ogni giorno giocare insieme a te.
Una mattina, mi ha detto: "Sai quella cosa delle bollicine da mandare in giro per il corpo? Una sera, c'era un caldo boia, lo senti, no, qui che caldo che c'è sempre, io mi sono messo a fare quella cosa lì e è arrivato un vento fresco, ti assicuro, Chandravim, sembrava un vento di montagna, eppure la finestra era chiusa. Che roba è? Ti assicuro".
"Si chiama metta".
"Cosa?".
"Il vento di montagna".
Poi Battista l'hanno portato in un ospedale lontano, per fare la radioterapia, lo vedo meno spesso. L'ho visto proprio stasera. Va pazzo per la radioterapia, dice: "Vero che sembro uno che è stato a Cuba?".
Che io possa lasciarti libero, che io possa sapere che sono inutile, che io possa rispettare la radioterapia, e tutte le tue scelte. Ha ricominciato a camminare, è un po' meno magro, è spietatamente sincero con quelli che tentano di svicolare. "Ti interessa sapere come sto?" dice a chi parla d'altro. Stasera, mi ha raccontato che quello vicino a lui è morto dopo quattro giorni di agonia.
"Com'è stato essere lì?" gli ho chiesto.
"Ma, sai, secondo me non soffriva, il respiro faceva rumore, ma non un rumore brutto. Poi, non ho sentito più niente, e ho capito".
C'è da fidarsi dei musicisti, e dei musicisti ciechi ancora di più, se non faceva un rumore brutto, è probabile che non soffrisse.
"Se senti delle emozioni forti, Bat, ricordati di osservare il respiro".
"Ma quello lo faccio sempre". Il tono è: mica solo con le emozioni forti, come voi dilettanti.
Battista è ancora spacciato, è ancora un cieco vedente, è un irrimediabile comunista senza dio, è ancora vivo. Forse morirà presto, forse morirà seguendo il respiro come un aquilone, o forse morirà spaventato o arrabbiato, forse, ma una cosa è certa: morirà come gli pare a lui. E un'altra cosa è certa: non solo l'amore non è cieco, ma anzi, solo l'amore fa vedere, e metta fa vedere gli amici.
Un venerdì dello scorso mese Battista è uscito dal corpo, come un guerriero, nonostante la soffferenza.
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