Meditazione sulla gratitudine
(di Corrado Pensa)
Quando la mente e il cuore, dopo un lavoro di vari giorni, godono di più chiarezza e più apertura, allora una parola come gratitudine può risuonare in maniera diversa, più luminosa del solito. Proprio perché la gratitudine è intrinseca all’apertura, un cuore più aperto significa un cuore più facilmente grato. Si può dunque parlare di gratitudine per un ritiro, di gratitudine nei confronti del sangha, ma soprattutto di gratitudine fondamentale, di gratitudine radice, di quella forma di sentire che per eccellenza unisce: la facilità all’essere grati, la facilità a sentire gratitudine.
L’estate scorsa ho praticato con un maestro cinese. Qualcuno in una sessione di domande e risposte chiese come si può insegnare ai bambini il non attaccamento e il maestro Shen Yen rispose: "Insegnando la gratitudine".
La facilità alla gratitudine come polo opposto al dare tutto per scontato, che è una forma di indurimento, una forma di chiusura, a volte penosamente cronica. La facilità alla gratitudine è il contrario del sentirsi dolorosamente in credito, di sentire spesso – o sempre e comunque – di non essere abbastanza, di non avere abbastanza, di non ricevere abbastanza: grandi sofferenze, che la pratica ci aiuta progressivamente a comprendere e a sciogliere. E naturalmente questi scioglimenti piccoli o grandi ci suscitano gratitudine.
La consapevolezza è una grande compagna della gratitudine, la consapevolezza, soprattutto quando è come un passo felpato, ci fa notare con grande tranquillità tutto quello che riceviamo, ce lo fa scoprire naturalmente, non ci tiene una lezione, ce lo fa scoprire con naturalezza, a cominciare dal cielo e dal sole che riceviamo. L’elenco è senza fine e la consapevolezza grata ce lo fa percorrere con gioia.
Al termine del ritiro con il maestro Shen Yen, ci fu una cerimonia che mi coinvolse e mi colpì molto: veniva enunciato qualche cosa di cui si era grati, una selezione da questo elenco infinito. Veniva suonata una campana e quindi tutti ci prosternavamo completamente al suolo, esprimendo così con tutto il corpo la gratitudine. Ed era come se questa gratitudine raggiungesse una completezza particolare.
Prescindendo naturalmente dalla gratitudine convenzionale, pensando solo alla gratitudine vera, la frase: "Ti sono grato", detta o ascoltata, è una frase di grande felicità, di evidente amore. E vive dentro di noi. Sotto gli strati e le croste dell’attaccamento, dell’avversione, c’è questa tenerezza dentro di noi. A volte occorrono anni perché ci venga il sospetto che al fondo di tutto ci sia questa tenerezza illimitata, ma basta quel sospetto per renderci molto più felici. Potremmo doverci giostrare mille attaccamenti, mille avversioni, mille confusioni, ma sapere che c’è quella tenerezza dalla quale sgorga la gratitudine ci ripaga ampiamente. Va crescendo la naturale prontezza alla gratitudine per piccole, piccolissime cose. Ma la gratitudine non è piccola: l’occasione è piccola per i criteri convenzionali, un saluto, una telefonata, un incontro, l’improvviso presentarsi di un bosco dopo una curva. La prontezza alla gratitudine. La capacità di meravigliarsi e dire grazie. Grazie, grazia, gratitudine.
Ci sono limiti agli oggetti della gratitudine? Si può essere grati per le difficoltà che incontriamo, per gli attacchi, gli insulti, le calunnie che riceviamo, gli incidenti che ci succedono, le malattie piccole o grandi che ci capitano, si può essere grati? O la gratitudine, l’elenco della gratitudine non include queste occasioni? Le include, soprattutto se siamo praticanti: è una gratitudine più difficile, più lenta a emergere e spesso è una gratitudine non immediata, bensì a posteriori. Ma è sempre gratitudine. E perché gratitudine? Perché è difficile – io penso impossibile – imparare la generosità senza imbattersi tante volte in mancanze di generosità, nostre o altrui. Non si può imparare la pazienza senza attraversare con qualche consapevolezza tanti episodi di impazienza nei quali cadiamo. Se non ci fossero questi episodi di ingenerosità, questi episodi di impazienza, i fatti o le persone che sono cause occasionali di questa nostra reazione, noi non avremmo la possibilità di alcun tirocinio in profondità, per scavare in questa essenziale purificazione.
Quando cominciamo a capire, a capire di più, a capire meglio, a capire ancora, a capire ancora di più, allora questa gratitudine, che è così paradossale, così controcorrente, così incomprensibile per l’io, questa gratitudine comincia a farsi sentire ed è un fortissimo vettore di apertura. Allora ci coglie la gioia davanti all’imprevedibile: essere grati a qualcosa che ci ha turbato, che ci ha fatto male, ci ha mortificato, frustrato, depresso. Perché noi, mischiando la nostra consapevolezza con quella sofferenza, ci siamo potuti entrare più a fondo, averne meno paura, cominciare a trascenderla, avere un lampo di compassione. Mentre in una ipotetica condizione di pace continua, di pace fortunata (non raggiunta col lavoro interiore) non avremmo avuto questi fondamentali approfondimenti.
Possiamo utilmente ricordarcelo quando incappiamo in qualcosa che non ci piace, che ci fa soffrire: è inutile sforzarci di essere grati, ma ricordiamoci che questa occasione, se la affrontiamo secondo la pratica, diventa un seme fecondo di gratitudine, anche se non lo sentiamo la prima volta, anche se non lo avvertiamo subito. E allora la lista, la lunga lista, comprende anche queste occasioni, da un certo momento in poi ed è una svolta delle più cruciali nel cammino interiore.
Noi possiamo veramente dire di avere incontrato un cammino, di essere pienamente in cammino, quando cominciamo a toccare queste dimensioni nuove, che non appartengono al nostro bagaglio precedente. E questa vasta, vastissima potenzialità di gratitudine diventa poi un fermento, un sostegno, per sviluppare la compassione davanti a tutto quello che è male, è orrore, è ingiustizia, è violenza rivolta a tanti che non hanno nessuno strumento di lavoro interiore. Non si può ovviamente essere grati davanti alla violenza, ma qui non è la gratitudine che è chiamata in causa, quanto piuttosto la compassione, e la compassione non appartiene a un’altra famiglia, la compassione è sostenuta dalla capacità di essere grati, diciamo che se c’è l’una c’è l’altra e viceversa, sono entrambe forme di apertura del cuore.
Alla fine di un ritiro è tradizione dedicare il merito, l’energia sviluppata attraverso la meditazione, a qualcuno, a qualche causa nobile. Ognuno di noi può farlo: "Dedico il merito, l’energia, o la virtù…" e lasciamo che l’apertura del cuore ci dica a chi o a cosa.
"Che tutti gli esseri possano essere felici, liberi da sofferenza, liberati."
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