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SCHEDA ARTICOLO N. «01687»

CLASSIFICAZIONE: 4
TIPOLOGIA: CONGENERE
AUTORE: CHANDRAVIMALA CANDIANI
TITOLO: LE PAROLE CHE MANCANO
SPAZIATORE bianco

TESTO ARTICOLO

Le parole che mancano

(di CHANDRAVIMALA CANDIANI

Forse - morirò,
Certo - risorgerò!
Curilin

Ho vissuto tre mesi in un posto che gli atlanti dicono sia in America.
Sono stata in un luogo dove puoi impazzire senza intaccare la fiducia
che gli altri hanno in te e tornare alla cosiddetta normalità senza
che nessuno se ne stupisca.
Per tre mesi sono morta di morti successive e ravvicinate e ho
imparato a risorgere senza anticiparlo neanche con la speranza.

Insomma, ho fatto il ritiro dei tre mesi all’Insight Meditation
Society di Barre, Massachusset.

Eppure, non ho affatto la sensazione di essere tornata da un ritiro,
so solo che per tre mesi ho vissuto al massimo delle mie possibilità,
che ho messo allo scoperto le radici della mia sofferenza, che sono
andata in pezzi, che ho pianto mille pianti diversi, che ho avvertito
il sorriso del Buddha passeggiare sulla mia faccia, che sono morta,
che sto scrivendo alla mia eterna scrivania, la stessa di tre mesi fa.

Vengo da una famiglia di pazzi, di alcolisti, di suicidi.

Ci ho messo quarantasei anni a dirmelo. A Barre sono bastati tre
giorni. Alcune notti con una compagna di camera che si muoveva nel
letto mi hanno gettato in un panico cellulare che non voleva più
essere rimandato o consolato. Senza pensare, il semplice stare col
corpo ha acceso degli enormi fari su tutta la mia infanzia e i traumi
del mio passato sono venuti a galla, come pezzi di sughero
sull’oceano.

Una sola cosa sapevo: io dalla sofferenza non voglio più scappare, so
che, se posso vedere i miei ricordi rimossi, questo significa che si
stanno staccando da me, e so che prima dovrò immergermi in loro come
in un mare infernale; e l’ho fatto. Dopo alcune notti insonni, sono
arrivata disperata alla stanza dei colloqui di Michèle Mac Donald, la
mia insegnante personale per la prima parte del ritiro. Piangendo, le
ho sussurrato: "Si sta aprendo tutta la mia infanzia, non so se è
perché il tempo è maturo, o solo perché non posso dormire".

Lei mi ha ascoltato in silenzio, poi, come una fata delle fiabe, ha
sussurrato: "Guarda!". Ho seguito il suo dito: c’era un letto, un
letto per me nella sua stanza dei colloqui. Ma non solo: c’era spazio,
spazio per il mio dolore nella stanza di Michèle, nel cuore di
Michèle; per la prima volta, una persona non aveva paura della mia
disperazione, non mi chiedeva di sorridere o di parlare d’altro, mi
faceva spazio, mi dava rifugio.

E con Michèle è iniziato un delicatissimo viaggio interplanetario, un
viaggio tra le giuste distanze, non le ho mai chiesto la mano, non me
l’ha mai offerta. Con enorme rispetto, mi ha accolto a ogni colloquio
sussurrando appena: "Hello! È difficile metterlo in parole, vero?"
Esattamente così, ancora adesso: così difficile metterlo in parole.
Manco le parole. Le parole mi mancano.

Posso solo dire che tremando, soffocando gli urli nel cuscino, gelando
di paura, piangendo come non mi ero mai permessa di fare, stringendo
al petto la foto di Claude Thomas, che un anno fa mi aveva predetto:
"Vuoi liberarti dalla tua sofferenza? Sei pronta a vederla aumentare?"
e aveva aggiunto: "Quando soffri, chiamami, sarò lì con te", ho
lasciato che avvenisse il contatto con tutti quelli che hanno fatto
della mia infanzia un piccolo lager, e li ho sentiti così innocenti,
così soli, così disperati. E ho visto la genesi del mio senso di
estraneità da ogni gruppo, da qualsiasi assembramento sociale,
politico, religioso, ricreativo; non solo, la paura che mi fanno gli
esseri umani quando si riuniscono in nome di un qualsiasi gusto comune
o opinione comune. Immediatamente, la mia mente va a quello o a quelli
che ne restano esclusi, e immediatamente io sono con loro. Una grande
distanza ha cominciato a crearsi tra me e le cosiddette persone
spirituali. L’ho lasciata essere.

E ho ricordato quando in quinta elementare, dopo le notti insonni,
passate nell’inferno dell’alcool e della violenza, mi trovavo tra le
belle bambine col grembiule bianco di un collegio di suore, e sapevo
di essere un mostro e tremavo per la paura che gli insegnanti lo
scoprissero e potessero espellermi per sempre dalla scuola.
All’Insight Meditation Society, è riemersa la paura, ogni giorno ho
atteso un biglietto degli insegnanti: "Vai via di qui, perché sei
impura".

Ho cominciato a sentir salire dal mio corpo degli odori, odori di
morte, di disfacimento, i processi di morte che, vogliamo o no, ci
sono nel nostro corpo. Passeggiando nella natura, le foglie d’autunno,
gialle, rosse, verdi, che avevano fatto della terra un enorme
Arlecchino, stavano tutte diventando marroni o nere. Infiniti livelli
di morte, personali passaggi dalla vita alla morte. Ogni foglia cadeva
in modo unico e personale, e in modo unico e personale si restituiva
alla terra. Alcuni raccoglievano le foglie più belle e le lasciavano
nei punti di frequente passaggio, per condividere la bellezza.

Io notavo solo le foglie più anonime, cercavo disperata, come un
barbone nella spazzatura, la foglia abbastanza marrone, abbastanza
brutta; non troppo marrone, non troppo brutta: le meno uniche, le meno
notabili.

Un giorno Michèle: "Adesso hai smesso di fingere di essere felice.
Solo adesso il tuo cuore è aperto, perché ti sei aperta alla tua
sofferenza".

E di colpo, durante una camminata, con i miei occhi di mostro che
vedevano appena il pavimento, perché di nuovo erano gonfi di lacrime,
ho sentito nel mio petto: "Oh Chandravimala, senti, avverti, come in
questo momento, in questo preciso momento, milioni di esseri umani
stanno soffrendo, di mille diverse sofferenze, di mille diversi
dolori". E ho sentito la mia faccia stravolgersi di ribellione e ho
compreso più profondamente una visione di alcune notti prima: gli
esseri umani lasciavano il corpo con l’ultima espirazione, come si
lascia un guscio o un bozzolo, come si sbarca senza conoscere la
destinazione, e, invisibili, diventavano uno. Col cuore che divorava i
chilometri, ho sentito: "Siamo uno, c’è solo un essere, c’è solo
l’essere".

Allora, il dolore e una sottile forma di malinconica gioia sono
diventati uno. Allora, la paura della morte è diventata la paura di
una parola, su cui gli esseri umani hanno costruito secoli di terrore
e di potere. Allora, aprire e chiudere una porta, camminare, lavarsi,
inchinarsi, infilarsi in un letto, sedersi, piangere, sorridere,
respirare, urinare, quando sono abitati dal sapere di essere vivi,
sono figure di una danza d’amore.

Ho paura della morte e sono morta per migliaia di attimi al giorno? Ho
paura della morte e mangio come un automa? Lavo i piatti senza sentire
che tocco l’acqua, che l’acqua, miracolosamente, lava lo sporco, che
lo sporco, miracolosamente, si ricreerà tra poco?

Possiamo scegliere: continuamente vivi, mezzi vivi e mezzi morti, o
continuamente morti; e la paura della morte diventa, allora, la paura
di qualcosa che ci costringe a essere vivi, spalancati al presente.

Da quel momento ho incontrato molte esperienze in piena nudità. È
andato perso in lavanderia il mio asciugamano, ho visto tutti gli
altri andarsene con il loro e sono rimasta sola davanti a un tavolo
vuoto, in un linguaggio non mio, certa di non avere più di sei anni e
di non sapere l’inglese. Nudi, un asciugamano diventa una tenda, la
capanna, il riparo; e meditando si è nudi sotto le stelle, all’aperto
nell’universo, ma di colpo la massima esposizione, la massima nudità,
è diventata la massima protezione, la qualità umana senza più
maschere, il tremito e la preghiera senza parole. Un asciugamano perso
in lavanderia.

In ogni nostra emozione c’è la nostra storia personale, la storia
della nostra famiglia, della nostra città o paese, della nostra
nazione, del pianeta terra, del condizionamento della nostra
educazione e di quello umano: sapere che non siamo immortali. E
un’emozione così complessa, così stratificata, sorge e passa, e
dipende dalle condizioni in cui sorge e in cui passa, e non dalla mia
decisione di volerla sentire o sfuggire.

Allora, ho sentito che la sofferenza non è personale, né privata, che
è la cosa che più ci accomuna e che non è sofferenza per questo o per
quello, ma è la sofferenza di essere nati, separati dal tutto.

Guardando i pini dalla mia finestra, sono arrivate nuove lacrime:
c’erano ancora troppe parole tra me e gli alberi, troppo linguaggio,
per consolare tutte le creature dell’inganno della separazione.

Nel colloquio con Sharon Salzberg, così delicata e sensibile da non
guardarmi mai negli occhi nei miei giorni senza pelle e da accogliere
in piena faccia ogni mio sguardo quando tornavo di carne umana, ho
chiesto a Sharon: "Come posso liberarmi dal linguaggio?". E lei: "Oh,
ci sono parole che vengono da un posto così profondo che non sono più
parole".

Che regalo! Ogni pensiero ha, dunque, una ragione d’essere, ogni
parola ha un motivo, ogni stato mentale, anche il più tormentoso, è
degno di rispetto, posso invitarlo a restare e interrogarlo,
chiedergli il suo nome, la sua storia, come fa un buon padrone di casa
con un ospite gradito.

E una sera Sharon nel suo discorso: "Il Buddha ha detto che
praticando, la mente diventa come un laghetto tranquillo. Gli animali
selvatici vi vengono a bere, avidità, odio, invidia, ma il lago resta
tranquillo. Questa è la felicità di un Buddha".

E la mia mente, che per tutto il ritiro aveva dato asilo a sempre
nuove fiere, gettandomi nel panico del confronto con gli altri, ogni
mattina di nuovi occhi gonfi, la mia mente si è calmata. "Va bene
così, piccola bambina ferita, so che sei lì, so che hai paura, e io
sono qui per questo" le ho sussurrato. Oh cara mente, sopravvissuta a
tante sofferenze, ora so che, anche se non ho ferito molta gente in
questo mondo, ho ferito e tradito me stessa, fingendo di essere
felice, sorridendo, chiacchierando, nascondendo traumi e paure, per
essere normale, per essere come gli altri, che a loro volta vogliono
essere come gli altri.

Vorrei concludere questo scritto, troppo intenso come me, con migliaia
di ringraziamenti:

all’albero solitario che mi ha accolto ogni giorno e che ha pianto con
me nel giorno più difficile del ritiro; a chi lasciò al mio posto di
meditazione un piccolo Buddha dorato, dopo una notte passata a
disperarmi, perché sentivo di aver trattato il Buddha come un Nembo
Kid o un aiutante magico, e non come il luminoso sì che anche adesso,
in questo preciso momento, posso dire a tutto quello che, piacevole o
mostruoso, sorge e passa in me; alla donna americana che alla fine del
ritiro, con la mia stessa faccia segnata di bambina cattiva, mi ha
detto: "Era bello stare davanti a te a tavola, vederti piangere, e
vederti lavorare, senza volerlo mostrare"; alle oche selvatiche che
parlavano italiano; all’uccello che si è posato sulla mia testa,
quando mi sentivo indegna di restare ancora un solo minuto, impura tra
i puri; allo stagno ghiacciato; a Michèle, sempre ubriaca (di verità);
a Sharon, farfalla dalle sensibilissime antenne, in incognito in un
corpo di grande donna; al mio delicato fratello che, durante le mie
morti simboliche, ha visto rapire dalla morte fisica la sua amatissima
moglie; a Carol Wilson, toccata dalle parole che mancano; a Vivian,
che appena tornata a Milano, mi ha regalato questa frase di Victor
Hugo: "La contemplazione è uno sguardo che ha questa virtù: a forza di
guardare l’ombra, ne fa scaturire la luce"; ma soprattutto a me
stessa, che ho saputo non ridere, quando non ne avevo voglia, tra
cento risate, che mi sono stretta tra le braccia, mentre mi disfavo in
lacrime, che ho conosciuto il mio mostro, che da bambina soffrivo per
il destino riservato al lupo nelle fiabe, che adesso non accetto un
uso volgare del concetto di karma, che continuerò a sorridere solo
quando corrisponde a un’esperienza interiore, a me stessa: grazie!

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