Georges Bataille. L’isolamento
di Alice Banducci
"Ognuno di noi è come confitto in un angusto isolamento. Nient’altro conta ai suoi occhi se non lui stesso".
Tanti uomini formano una comunità, una città, uno stato: sono un gruppo, sono cittadini e abitanti di un territorio. Ognuno è un individuo singolo appartenente alla collettività; ogni uomo è parte di un tutto, un ente unico e inimitabile che esercita il suo potere di essere insostituibile. Percepire la propria singolarità e particolarità è un atto di coscienza; si ha la consapevolezza infatti di possedere una realtà interiore che dona movimento e vita al nostro corpo e al nostro essere individuale.
Georges Bataille ricorda come questa forza che ci mantiene separati l’uno dall’altro possa essere la prima fonte di energia che spinge ciascuno di noi a trovare nell’altro e nella comunicazione un’espressione completa e totale del nostro essere uomini.
Siamo tutti individui che viviamo in una realtà confusa, complessa e apparentemente statica. Abitiamo città, viviamo in edifici massicci, alti, camminiamo lungo strade prestabilite e note; apparteniamo a questo mondo che Bataille chiama "il mondo dei solidi".
Questa dimensione non dimentica la materia e la sua consistenza; noi ne facciamo parte, ma siamo anche esseri attivi, e vivi, generiamo un forza interiore che ci allontana da questo destino prestabilito di creature mortali e distruttibili. Ognuno si abbandona all’altro; rinunciamo a parte di noi stessi, ci separiamo dal "mondo dei solidi" per ritrovarci in una dimensione piena di luce, elettrica: nel comunicare viviamo l’opposizione e il contrasto di questa vita fatta di materia e del sospeso che ci circonda.
L’isolamento è la condizione dell’essere umano; la comunicazione permette il contatto. Le impressioni che riceviamo dall’esterno possono rendere il mondo meno angusto ai nostri occhi, ma quello che conta poi infondo non siamo noi, ma il mondo stesso. La morte svela la menzogna in cui viviamo: l’individuo non è altro che parte di questa realtà sfuggevole. Riportare tutto a noi stessi è un tentativo vano.
L’essere umano è unico, ma la sua singolarità non può che cedere di fronte a un destino ineluttabile. La morte cancella il singolo e azzera le differenze: ritorna il mondo in primo piano. Per ironia della sorte viviamo una condizione tragica: solo morendo raggiungo la completezza. La solitudine si risolve nella perdita della vita stessa, l’individuo annienta il proprio universo per abbandonarsi al tutto che lo circonda.
Viviamo nel paradosso, scissi da una costante irrequietezza: da un lato noi, come individui singoli, che prendono come punto di vista sul mondo il proprio; dall’altro il mondo, il tutto compatto in cui ogni parte si fonde e si completa. Il binomio non si risolve, ma si accende e si infuoca, nessuno può rinunciare al proprio io, al suo essere "particolare", ma allo stesso tempo non può dimenticare l’altro, il desiderio di unire se stesso con ciò che lo circonda e lo avvolge.
La forza di ciascuno risiede in questo perenne contrasto. Diventa grottesco, però, pensare a questo uomo, che per istinto e natura vive solo; cosciente del proprio essere singolo si ritrova parte del mondo, e allora cerca il contatto, ma cade nell’errore. Sbaglia a credere che quello che vede segue la sua privata necessità; è il mondo che domina questa energia, di cui l’uomo è sì parte, ma come spettatore.
La sfera d’isolamento è una prigione socchiusa: rinchiude e protegge. Una piccola fessura rende questa condizione ancora più precaria: da un lato illude, dona allo sguardo un’ipotetica via di fuga, dall’altro lato non permette di allontanarsi da questo mondo interiore.
La morte non è altro che un goffo, ma efficiente tentativo di abbandonare questa prigione per ritornare al mondo; la fine diventa un inizio a cui l’uomo non può sottrarsi. Credere nel proprio isolamento come condizione necessaria di tutto ciò che è, diventa il vero orrore di questa esistenza, unica, singolare, ma mai eterna.
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