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SCHEDA ARTICOLO N. «01774»

CLASSIFICAZIONE: 2
TIPOLOGIA: BUDDISMO
AUTORE: AJAHN SUMEDHO
TITOLO: SO CHE NON SO (MONOGRAFIA LUNGA)
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TESTO ARTICOLO

So che non so

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Samira Coccon e Chandra Candiani

Discorso tenuto a Morlupo il 1 novembre 1999.

Questa sera, nella riflessione sulla pratica, vorrei mettere in
rilievo il suo luogo, quello speciale laboratorio che si trova nel
nostro cuore e nella nostra mente. Attraverso la consapevolezza
intuitiva, facciamo attenzione a come sono le cose, rendendocene
pienamente coscienti, perché in realtà non siamo consapevoli di molta
parte della vita. Possiamo renderci conto di come il condizionamento
della mente ci predisponga a fare l’esperienza delle cose solo
attraverso certe percezioni; quando le cose non rientrano nella nostra
sfera di esperienza, nel nostro modo di percepirle, tendiamo a non
notarle. Un essere umano molto condizionato è qualcuno che sperimenta
la vita attraverso le condizioni che ha acquisito, tende a vedere e a
interpretare la vita attraverso i presupposti, le distorsioni, le
percezioni che gli sono propri e che ha acquisito a causa del suo
condizionamento sociale e culturale.

Ecco perché un condizionamento etnico molto conservatore, o un
approccio alla vita essenzialmente fondamentalista, si basano sulla
convinzione che una certa condizione è la sola giusta e ciò con cui
non sono d’accordo viene liquidato come sbagliato, come qualcosa di
eretico, di alieno, come il nemico. Abbiamo, dunque, paura di ciò che
è straniero, alieno, o diverso, o di quello che non conosciamo,
l’ignoto, l’incerto, l’estraneo; molti vogliono liberarsi di tutto
questo, vogliono espellerlo o evitarlo.

Chi vive la sua vita in modo molto conservatore si sente minacciato da
qualsiasi genere di comportamento inusuale, lo considera anormale ed
estraneo e teme i valori alieni, perché sono aspetti ignoti nella sua
vita, e nel suo condizionamento culturale c’è una sorta di certezza in
cui si aspetta che le cose rientrino, che confermino la sua visione
della vita, per poter essere d’accordo e accettarle.

Quando vivevo in Thailandia, notavo che alcuni occidentali, a causa
della diversità di condizionamento, del linguaggio diverso, della
differenza climatica, alimentare, della grande diversità culturale
dalla società europea, erano presi dal panico, dalla paura, perché
erano entrati in contatto con condizioni ed esperienze diverse per
qualità da ciò a cui erano abituati, lo chiamavano ‘shock culturale’.

Lo stesso vale per gli approcci fondamentalisti alla religione:
avvicinandoci alla fine del millennio, al periodo apocalittico, che
presenta aspetti sconosciuti e incerti, diventano sempre più popolari
le religioni fondamentaliste, i modi di vedere l’esperienza in termini
rigidi, dove siamo tutti d’accordo che le nostre percezioni sono
quelle giuste, e che tutto quello che non vi rientra è sbagliato.

Volerci sentire sicuri, avere la sensazione di sapere esattamente
cos’è bene e cos’è male, cos’è vero e cos’è falso, come qualcosa che
ci viene dato dall’esterno, è uno degli aspetti umani che più abbiamo
in comune, quando i tempi diventano più incerti e l’ignoto ci
spaventa. Talvolta proviamo una forte tentazione a far parte di
qualche organizzazione, dove ci si dica esattamente come vestirci,
cosa dire, come comportarsi, come pensare e dove, in certo modo, ogni
cosa è per noi già predisposta nella maniera accettabile e non resta
che adattarvisi: tutto questo crea un senso di sicurezza.

La sensazione di non sapere, l’insicurezza, l’incertezza sono
condizioni della mente che cominciamo a riconoscere, quando ci apriamo
alla consapevolezza intuitiva. Usiamo perfino metodi, modi per
sviluppare la capacità di non conoscere. In alcune forme di buddhismo
Zen ci si pongono deliberatamente domande impossibili, a cui non c’è
risposta. O in alcuni insegnamenti Vedanta si usano domande quali:
"Chi sono io?". Un approccio in cui continui a chiederti: "Chi sono?".
O si viene posti in situazioni in cui la sicurezza e la certezza della
propria vita sono spazzate via e per sopravvivere puoi contare solo
sulla capacità intuitiva della mente.

È una realizzazione importante contemplare il futuro come ignoto,
sapere che il futuro è l’ignoto, che non si sa. Per esempio, fatevi la
domanda: "Chi sono?". Cosa succede? La mente pensante si arresta. Vi
chiedete: "Chi sono io?" e si crea un vuoto, non è vero? C’è
un’interruzione nella nostra mente pensante che si ferma. Sono
consapevole di questa specie di vuoto, quando finisce la domanda e si
avverte il vuoto. E investo di consapevolezza questo vuoto, voglio
conoscere questo vuoto nel pensiero, in cui il pensiero non è
presente, ma c’è questa sorta di spazio. Dopo quel vuoto, la mente
pensante ricomincia: "Be’, sono Ajahn Sumedho", o qualcosa del genere,
ma questo lo so già, quello che cerco non è una risposta, voglio
essere consapevole di quel vuoto, di quello spazio.

È un modo per imparare realmente a essere consapevoli, per accogliere
quella sorta di vacuità della mente, in modo che il non pensiero venga
registrato dalla coscienza.

Un altro modo è porsi la domanda: "E poi? Che altro?". E la mente
pensante si ferma. Non mi interessa veramente cosa ci sarà dopo, cosa
succederà, quello che mi interessa è l’arrestarsi della mente
pensante, il vuoto, in modo da poterlo registrare, da notarlo: è così,
così è fatto il non pensiero. E allora lo conservo nella
consapevolezza intuitiva, nella coscienza. Questa pratica ci permette
di riconoscere, di essere pienamente consapevoli e coscienti di quando
il pensiero si ferma, degli spazi tra le parole, del silenzio alla
fine della domanda, e della sensazione di dubbio e di incertezza da
cui si è sorpresi, dell’insicurezza, di tutti gli stati mentali che ci
procurano la sensazione di non sapere, in cui il pensiero non funziona
più, ma la consapevolezza opera ancora.

Anche il suono del silenzio è un altro modo per arrivare allo stesso
scopo, in quanto ci si sintonizza sul suono primordiale, cosmico,
metafisico e il processo del pensiero si ferma quando si riposa in
questo stato di attenzione. Riguardo al suono del silenzio, è
importante dargli significato, perché per alcuni è solo un ronzio
nelle orecchie. E un ronzio nelle orecchie non sembra molto
importante, sembra piuttosto qualcosa di cui ci vorremmo disfare. O
per cui conviene andare dal dottore. Se lo sperimentiamo come un
ronzio nelle orecchie, finisce per diventare un disturbo, finiamo per
sentirci infastiditi o ostili. Il suono del silenzio ha spesso
ispirato la poesia dei Sufi. Non ricordo se fosse Rumi o Kabir che ha
descritto, in una poesia, il suono del silenzio come lo scintillio di
un milione di stelle. È stato chiamato la voce di Dio o il flauto di
Krishna. O gli si può attribuire un nome più scientifico come la
soglia dell’udibilità.

Quando lo prendiamo in considerazione in modo più poetico o in termini
positivi, gli attribuiamo un significato, qualcosa di cui ricerchiamo
la compagnia, qualcosa a cui diamo valore.

Negli anni scorsi ho cominciato una corrispondenza con un carcerato di
una prigione del Texas. Era interessato alla meditazione e continuava
a lamentarsi di un ronzio alle orecchie; nonostante io continuassi a
ripetergli che quel ronzio era un grande dono, lui continuava a
chiedermi: "Dimmi cosa devo fare per liberarmene". Io continuavo a
sottolineargliene la bellezza e lui mi rispose: "Da quando ho
cominciato a scriverti, non posso liberarmi da questo ronzio".

Questo carcerato sta evidentemente mettendo in atto una resistenza, ha
un intenso desiderio di liberarsi del ronzio. Si è fatto un’idea della
meditazione come di uno stato mentale colmo di pace, tranquillo e
totalmente quieto, senza ronzio. Ma attraverso la pratica di
meditazione di visione profonda, o consapevolezza intuitiva, non si fa
che notare il modo in cui le cose sono, l’attitudine verso il momento
presente è l’accettazione, e quindi, anche nel caso in cui senti che
stai opponendo resistenza, anche in quel caso sei disposto ad
accettare questa resistenza.

Abbiamo tutti diverse tendenze di carattere, la mia personale tendenza
è di opporre resistenza alla vita: il modo in cui tendevo a
relazionarmi all’esperienza, quando ero laico, si manifestava, in
generale, attraverso il tentativo di oppormi e di controllare le cose.
Quindi, notavo che le mie aspirazioni religiose andavano più verso un
desiderio di annichilimento che di felicità. Mia madre, da buona
cristiana, era l’opposto, mirava alla felicità eterna. Aveva un’enorme
fede nell’insegnamento cristiano, una fede tale che pensava che, una
volta morta, avrebbe vissuto con Dio in uno stato di permanente
felicità. Non era una cosa che io desiderassi particolarmente, non mi
attraeva, quello che volevo io era una sorta di sparizione nel vuoto.

Notando questa tendenza nella mia vita monastica, che si manifestava
come desiderio di liberarmi delle cose, desiderio di non esistere,
desiderio di non essere niente, scoprii che questa tendenza verso ciò
che chiamiamo annichilimento, o nichilismo, era un desiderio molto
forte. E divenni consapevole, attraverso la consapevolezza intuitiva,
attraverso la pratica della presenza mentale, di una sorta di
resistenza automatica alle cose. Potevo avvertire interiormente me
stesso che cercavo di spingere la vita lontano da me. Attraverso la
consapevolezza, cominciai ad accorgermi che questa attitudine si
manifestava a livello sottile, non era un rifiuto intenzionale di
qualcosa, era più che altro una reazione inconscia.

Cominciando a riconoscere e ad accorgermi della sofferenza che questa
resistenza alla vita produceva, fui in grado di lasciarla andare, mi
fu possibile smettere di farlo; quando riuscii a vedere me stesso
mettere in atto questa resistenza e potei accoglierla come
un’esperienza pienamente cosciente, solo allora mi fu possibile
lasciarla andare.

Con l’esperienza intuitiva, inoltre, si deve rinunciare a cercare di
descriverla e semplicemente realizzarla entro i limiti a cui siamo
soggetti nella condizione umana. È un fatto su cui riflettere, per
esempio, contemplando la nostra attuale esistenza, come entità
coscienti, una singola entità cosciente nell’universo. È questo la
nascita, quando nasciamo come esseri umani, viviamo dentro questa
restrizione dell’essere un’entità, apparentemente separata e
indipendente, un’entità cosciente in questo vasto sistema
dell’universo.

Questo significa, che durante la vita di questo corpo, ogni sorta di
cose influiranno su di esso, dal giorno in cui nasciamo fino al giorno
in cui moriamo, questo breve tratto di vita viene sperimentato come un
continuo urto, una sorta di irritazione su una forma sensibile. Questo
significa che siamo sempre soggetti alla sensazione di essere agitati,
irritati, in qualche modo, dalle cose che influiscono sulla vista,
l’udito, l’odorato, il gusto, il tatto e infine sicuramente anche le
nostre incessanti abitudini emozionali e di pensiero.

È anche importante considerare come in questo momento, prendendo me
stesso come esempio, questa entità conscia è qui e voi siete nella mia
mente. Anche se a livello convenzionale, voi siete seduti qui, e siamo
tutti ugualmente individui umani di questo gruppo, in termini di
esperienza diretta, voi siete nella mia mente, andate e venite e
influite su di me. In termini di realtà, in questo momento, ognuno di
noi è il centro dell’universo. Non è un’affermazione tronfia o
un’esaltazione egoica, ma un invito a riflettere.

Riguardo alla relazione con qualcun altro, per quanto intima possa
essere questa relazione, in termini di esperienza, l’altro va e viene
nella nostra mente. È semplicemente così, è così che sperimentiamo la
vita in quanto entità consapevoli nell’universo.

Quando prendiamo le cose personalmente, in questo caso la personalità
non si basa sulla riflessione riguardo all’essere il centro
dell’universo, la nostra personalità si basa sul confrontare noi
stessi alle idee e alle aspettative delle altre persone e della
società in cui viviamo.

In questo momento io sono al centro dell’universo, questa è la mia
esperienza attraverso la vista, quello che vedo, essendo adesso notte
fuori, è che c’è luce in questa stanza, quindi riesco a vedere con
chiarezza le persone sedute in fondo alla stanza, riesco a vedere le
finestre e questa visione mi fa sentire al sicuro, dentro a una stanza
illuminata, anche nel mezzo di questo vasto, buio universo che le sta
attorno.

Ma mi ricordo di quando come monaco vivevo nella foresta,
nell’oscurità della foresta e non c’era luce, non c’era la luna, ed
era completamente buio. Sedevo nell’oscurità, fissavo il buio, e non
riuscivo a vedere assolutamente niente, non potevo nemmeno scorgere la
mia mano di fronte agli occhi. E sentivo un’incredibile paura sorgere
nella mia mente, perché sedere là come il centro dell’universo,
un’entità cosciente e il centro di un’oscurità completa, era
terrificante, perché nel buio ci poteva essere qualsiasi cosa, magari
serpenti velenosi, o insetti, o anche fantasmi, tigri, chissà. Ci
poteva essere qualunque cosa, perché non potevo vedere, e
l’immaginazione cominciava a creare infinite possibilità terrificanti,
presenze ignote nel buio. Nella tradizione thailandese, avevamo quelli
che sono chiamati ombrelli ‘tudong’, fatti di bambù, che possono
essere appesi sotto un albero e così creare una specie di zanzariera
che pende dall’ombrello. Allora, io ero tanto in preda alla paura che
mi infilavo sotto la zanzariera e accendevo una candela e la candela
illuminava lo spazio dentro la zanzariera, in modo che potevo vedere
tutto entro quel minuscolo piccolo cerchio che stava sotto l’ombrello
recintato dalla zanzariera. E la paura scompariva completamente,
perché avevo la sensazione di essere nella luce, potevo di nuovo
vedere, potevo vedere quello che rientrava nell’area intorno a me.

Anche se ero sicuro che se ci fossero state tigri o serpenti, la
zanzariera non li avrebbe fermati, avevo lo stesso l’illusione di
essere nella luce, proprio come in questa stanza: abbiamo la
sensazione di sapere dove sia ognuno di noi, ma cosa accadrebbe se
all’improvviso mancasse l’elettricità e restassimo bloccati in questa
stanza buia?

Talvolta, basta uscire di notte e guardare l’immensità del cielo, il
fatto che sia così vasto, che l’universo in cui viviamo sia così
sconfinato, e noi non possiamo in realtà capirlo, non possiamo
realmente conoscerlo. Talvolta ci sentiamo rapiti o presi dalla
meraviglia davanti al mistero e alla maestosità dell’universo, che
possiamo percepire, ma non conoscere.

Nella pratica di presenza mentale, di consapevolezza intuitiva, non
abbiamo bisogno di conoscere niente riguardo a nient’altro, abbiamo
solo bisogno di conoscere le cose come sono in questo preciso momento,
entro la limitazione del corpo umano, della coscienza sensoriale,
sentendo ciò che è presente, ciò che possiamo osservare ora. Il Buddha
paragonava il suo insegnamento delle Quattro Nobili Verità a una
manciata di foglie: non sono tutte le foglie della foresta, è solo una
manciata. Entro la limitatezza della nostra coscienza umana, non
possiamo relazionarci con tutte le foglie della foresta, o contare
tutti i granelli di sabbia del fiume Gange.

Quello che stiamo facendo è imparare da questa manciata di foglie, che
in realtà è come il corpo, la coscienza, le esperienze sensoriali, il
modo in cui sono le cose, per come le possiamo sperimentare
direttamente nel momento presente. È un’esperienza che rende molto
umili, perché il percorso spirituale non fa inorgoglire, non fa
diventare un essere spirituale altamente evoluto che fluttua per aria,
qualcuno al di sopra di tutti gli altri. Non diventiamo esseri
fantastici spiritualmente evoluti, giacché la nostra meta, la vera
misura della visione spirituale, inclina a una profonda umiltà. Ci si
sente paghi, grati di piccole cose; anziché cercare di sapere tutto su
qualsiasi cosa, anziché essere un’autorità, un esperto, si è più
consapevoli di non sapere, e che non è necessario sapere tutto, basta
conoscere la differenza tra il condizionato di cui facciamo ora
esperienza e l’incondizionato.

Ora sono monaco da trentatre anni e il risultato di trentatre anni di
pratica come monaco buddhista è che so di non sapere. So che c’è la
sofferenza, quando è presente, e conosco le cause della sofferenza, e
so quando la sofferenza non c’è. E so quando la mia personalità è
attiva e quando non c’è persona. È la diretta conoscenza di ciò che
chiamiamo ñana dassana, la conoscenza e la saggezza che provengono
dalla comprensione intuitiva diretta, dall’osservazione, anziché dal
collezionare conoscenze sulle cose. Il mio insegnante in Thailandia,
Ajahn Chah, una volta mi raccontò che quando iniziò a praticare la
meditazione disse al suo maestro: "Stai cercando di farmi diventare
stupido". È curioso che Ajahn Chah e il suo miglior amico di quel
piccolo paese a nord est della Thailandia vennero ordinati insieme
monaci. Risiedettero entrambi nel monastero del villaggio e studiarono
il pali e gli insegnamenti fondamentali del Dhamma e dopo cinque anni
Ajahn Chah andò nella foresta per praticare la meditazione, e il suo
amico si recò a Bangkok per studiare l’Abhidhamma e la lingua pali
all’università buddhista.

Quando incontrai Ajahn Chah, allora vivevamo a Ubon, una provincia del
nord est, talvolta il suo amico, quando c’era qualche cerimonia,
ritornava a far visita ad Ajahn Chah. E a quel tempo, quello che era
stato il monaco partito alla volta di Bangkok, aveva ottenuto i titoli
accademici più alti negli studi dell’Abhidhamma, c’erano nove livelli
di conseguimento e li aveva ottenuti tutti e nove nello studio
dell’Abhidhamma, che è una psicologia molto complessa, come anche
nello studio del pali, ed era piuttosto noto per la sua erudizione. Ma
Ajahn Chah mi diceva: "Vedi, dopo tutti questi anni lui non ha
veramente capito". E doveva affidarsi ad Ajahn Chah per la sua
saggezza. Questa è la conoscenza diretta, che non sembra essere tenuta
in grande valore nel mondo. Non ci farà vincere il premio Nobel, né
ottenere alcuna onorificenza, ma in termini di realizzazione della
verità e di liberazione dalla sofferenza, è al di là di qualsiasi
riconoscimento. E se siete disposti a imparare anche solo questo,
allora sentirete di aver imparato tutto quello che è necessario
sapere, tutto quello che è davvero necessario conoscere.

Questa è la riflessione che vi offro per questa sera.

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