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SCHEDA ARTICOLO N. «01837»

CLASSIFICAZIONE: 2
TIPOLOGIA: BUDDISMO
AUTORE: MAURO BARINCI
TITOLO: OSSERVARE IL POSITIVO ED IL NEGATIVO
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TESTO ARTICOLO

Osservare il positivo e il negativo

di Mauro Barinci

Poco dopo l’inizio del corso del lunedì, che quest’anno verte sulle
Quattro Nobili Verità, l’insegnante ha formulato una proposta di
lavoro per la pratica informale: fare attenzione, a giorni alterni,
agli aspetti positivi e agli aspetti negativi che si presentano nel
corso della giornata, in noi, negli altri, nelle situazioni.

Dopo le prime tre settimane ho proseguito il lavoro con una lieve
modifica: dedicare un giorno alla settimana alla osservazione sia del
positivo sia del negativo. Questo perché avevo sperimentato come
abbastanza spesso i due aspetti siano compresenti in una stessa
situazione. La prima esperienza specifica che vorrei riferire è
appunto di questo tipo.

Dalla finestra della mia stanza, al lavoro, si ha una vista molto
ampia, che inizia con i grandi alberi del giardino di una scuola
elementare e arriva al limite della città, alla campagna e alle
montagne. Un pomeriggio, pochi giorni prima di Natale, ho sentito un
canto venire su dal giardino della scuola. Mi sono affacciato a
guardare: i bambini, disposti sulla scala di entrata dell’edificio
centrale, avevano formato un coro e, diretti da una insegnante,
cantavano canzoni natalizie di fronte a un gruppo di genitori.

La dolcezza dei canti, unita alla bellissima vista fino ai monti e
alla luce morbida e piena del pomeriggio verso il tramonto, mi ha
commosso. Ne è scaturito un moto di gioia compartecipe nei confronti
dell’insegnante, dei genitori e, in modo particolare, dei bambini. Nei
confronti di questi ultimi alla gioia compartecipe si è unita la
tenerezza, pensando che per loro la vita si va aprendo
progressivamente, con tutte le sue possibilità. Quasi subito a questo
pensiero si è accompagnato, con un senso di smarrimento e una
contrazione, il pensiero che invece per me la vita va chiudendosi; ho
55 anni, statisticamente posso viverne altri 19. Non ci sarò più.

Molto rapidamente alla contrazione divisiva dell’autoriferimento è
subentrata la consapevolezza dell’avvicendarsi della vita, del fluire
delle cose. Ho percepito che tutti noi esseri, viventi e non viventi,
siamo immersi in quel fluire; di esso è impossibile dire, se non che
lo sento immenso, profondo, misterioso e, per inciso, bellissimo. La
contrazione dell’autoriferimento sperimentata poco prima mi è apparsa
davvero misera, angusta, riduttiva: che altro può generare, se non un
soddisfacimento limitato, povero, che rimane in superficie? Mi è stato
chiaro che in quel momento avrei accolto con piena accettazione la
morte – cioè l’evento che comunemente riteniamo il più negativo di
tutti. Da ciò è derivata una pace grande, profonda, stabile.

La pace si è protratta stabile per molte ore e ho avuto modo di
metterne a fuoco due qualità ulteriori e, credo, più importanti: la
solidità, alla quale attribuisco radici molto più profonde della
stabilità, e la distensione. Una pace molto diversa dal
soddisfacimento egoico. Trovo che in quest’ultimo non c’è distensione;
c’è l’abitudine a lavorare per conservarlo, senza riconoscerne i
limiti naturali, in particolare di durata, ovvero, quando avverto che
comincia a esaurirsi, a cercare qualcosa d’altro che lo sostituisca,
ripetendo poi lo stesso percorso.

In un periodo di particolare pienezza e centratezza mi riesce
difficile individuare momenti di disagio anche piccoli. Mi pare che
non ce ne siano. Comincio allora a notare momenti di proliferazione
mentale, ovvero abitudini compulsive. Ad esempio: sedersi a guardare
la TV senza conoscere i programmi, magari cambiando spesso canale.

Guardo un film già iniziato e che non mi interessa. Continuo a farlo;
voglio essere intrattenuto. Vedo che c’è il ricordo, potente quanto
nascosto, di una condizione che mi si presenta protetta, stabile,
accogliente; il presente senza TV, invece, appare quantomeno spoglio,
privo di stimoli attraenti, anche se non ci sono motivi di
sgradevolezza particolare.

Avverto fatica e disagio, ma al tempo stesso resistenza a guardare più
da vicino l’abitudine, così come ad abbandonarla, anche per un po’.
Una parte di me sa che la condizione nella quale voglio rimanere è
limitata, angusta, inappagante; in definitiva, è il contrario di
quello che appare. Lo verifico, poi, nella sensazione di
appesantimento e di costrizione che provo. Sono stanco, ed è una
stanchezza che lascia, che non sostiene.

Fare un lavoro può stancare ma, se è fatto consapevolmente, con
attenzione e con cura, la stanchezza ha una qualità diversa: è senza
appesantimento e sostiene, perché il lavoro fatto così appaga. Mi
sembra di ricordare che il termine Dharma derivi dalla radice dr, che
significa sostenere; Dharma è qualcosa che tiene, su cui si può
poggiare, che è solido e perciò, penso, ha radici profonde – come la
pace di cui ho detto prima. Se è così, allora (credo) con
l’espressione - Quello che doveva essere fatto è stato fatto- il Buddha
esprime il raggiungimento di una piena sintonia con quello che è,
momento per momento, senza un di più di fatica (di sofferenza);
ancora, esprime il raggiungimento di un livello di energia e di levità
(capacità di accettazione, lasciar andare) che vanno al di là della
sofferenza, lasciando che questa permanga nel semplice ambito
fisiologico.

Esprime insomma, per dire così, l’essere dentro la propria pelle in
piena aderenza, così da non accorgersene; è in questi termini che
penso alla piena disidentificazione.

Vorrei, infine, esprimere qualche considerazione complessiva derivata
dal lavoro fatto finora.

Le cose positive sono molto numerose, al punto che sarebbe veramente
arduo enumerare anche soltanto quelle che si presentano costantemente,
a partire dalla prima: sono vivo. Poi, tra le fortune e i privilegi
che in genere non considero neppure, tanto li dò per scontati e
permanenti: sono in buona salute fisica e mentale, posso disporre di
una casa comoda e confortevole, posso mangiare cibo di buona qualità e
abbondante, ho potuto avere una istruzione superiore,...; intrattengo
vari rapporti di amicizia, alcuni particolarmente affettuosi e
profondi,...; percorro un cammino spirituale che apprezzo sempre di
più, così come apprezzo crescentemente l’insegnante e i compagni e le
compagne nel cammino,...;...

Vedo che il notare più volte queste cose o altre del genere mi insegna
ad apprezzare piuttosto che a compiacermi; dunque, a essere più aperto
e flessibile invece che più chiuso e rigido. Inoltre mi rende più
pronto a metta, mudita, karuna; la mia capacità e la mia inclinazione
al riguardo ne vengono nutrite e accresciute.

Le cose negative derivano in buona misura da abitudini e sistemi di
credenze stratificate e consolidate. A volte perciò non hanno una
causa chiara e questo richiede fare particolare attenzione alla mente
giudicante, perché in casi del genere la sua attività è più nascosta
di quando invece la causa è chiara.

Le cose negative sono molto meno numerose di quelle positive, ma per
esse accade qualcosa di analogo a quello che, ho letto, viene
praticato in circoli molto esclusivi per l’ammissione di un nuovo
socio: un voto negativo equivale a dieci positivi. Un fatto negativo è
sufficiente, a volte, a colorare di sé una intera giornata – o una
vicenda – altrimenti densa di cose positive. Perciò i fatti negativi
sono ottimi insegnanti, in particolare di equanimità; inoltre sono
esigenti, come in genere lo sono gli insegnanti bravi. Sperimento
qualcosa di analogo nel lavoro: in questo pe-riodo svolgo un lavoro di
ricerca e ho modo di notare spesso che il non trovare la soluzione di
un problema, oppure trovarne una insoddisfacente, è più fecondo del
trovarla con facilità. Nel primo caso, probabilmente, la difficoltà
induce un livello maggiore di attenzione e di cura.

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