Osservare il positivo e il negativo
di Mauro Barinci
Poco dopo l’inizio del corso del lunedì, che quest’anno verte sulle Quattro Nobili Verità, l’insegnante ha formulato una proposta di lavoro per la pratica informale: fare attenzione, a giorni alterni, agli aspetti positivi e agli aspetti negativi che si presentano nel corso della giornata, in noi, negli altri, nelle situazioni.
Dopo le prime tre settimane ho proseguito il lavoro con una lieve modifica: dedicare un giorno alla settimana alla osservazione sia del positivo sia del negativo. Questo perché avevo sperimentato come abbastanza spesso i due aspetti siano compresenti in una stessa situazione. La prima esperienza specifica che vorrei riferire è appunto di questo tipo.
Dalla finestra della mia stanza, al lavoro, si ha una vista molto ampia, che inizia con i grandi alberi del giardino di una scuola elementare e arriva al limite della città, alla campagna e alle montagne. Un pomeriggio, pochi giorni prima di Natale, ho sentito un canto venire su dal giardino della scuola. Mi sono affacciato a guardare: i bambini, disposti sulla scala di entrata dell’edificio centrale, avevano formato un coro e, diretti da una insegnante, cantavano canzoni natalizie di fronte a un gruppo di genitori.
La dolcezza dei canti, unita alla bellissima vista fino ai monti e alla luce morbida e piena del pomeriggio verso il tramonto, mi ha commosso. Ne è scaturito un moto di gioia compartecipe nei confronti dell’insegnante, dei genitori e, in modo particolare, dei bambini. Nei confronti di questi ultimi alla gioia compartecipe si è unita la tenerezza, pensando che per loro la vita si va aprendo progressivamente, con tutte le sue possibilità. Quasi subito a questo pensiero si è accompagnato, con un senso di smarrimento e una contrazione, il pensiero che invece per me la vita va chiudendosi; ho 55 anni, statisticamente posso viverne altri 19. Non ci sarò più.
Molto rapidamente alla contrazione divisiva dell’autoriferimento è subentrata la consapevolezza dell’avvicendarsi della vita, del fluire delle cose. Ho percepito che tutti noi esseri, viventi e non viventi, siamo immersi in quel fluire; di esso è impossibile dire, se non che lo sento immenso, profondo, misterioso e, per inciso, bellissimo. La contrazione dell’autoriferimento sperimentata poco prima mi è apparsa davvero misera, angusta, riduttiva: che altro può generare, se non un soddisfacimento limitato, povero, che rimane in superficie? Mi è stato chiaro che in quel momento avrei accolto con piena accettazione la morte – cioè l’evento che comunemente riteniamo il più negativo di tutti. Da ciò è derivata una pace grande, profonda, stabile.
La pace si è protratta stabile per molte ore e ho avuto modo di metterne a fuoco due qualità ulteriori e, credo, più importanti: la solidità, alla quale attribuisco radici molto più profonde della stabilità, e la distensione. Una pace molto diversa dal soddisfacimento egoico. Trovo che in quest’ultimo non c’è distensione; c’è l’abitudine a lavorare per conservarlo, senza riconoscerne i limiti naturali, in particolare di durata, ovvero, quando avverto che comincia a esaurirsi, a cercare qualcosa d’altro che lo sostituisca, ripetendo poi lo stesso percorso.
In un periodo di particolare pienezza e centratezza mi riesce difficile individuare momenti di disagio anche piccoli. Mi pare che non ce ne siano. Comincio allora a notare momenti di proliferazione mentale, ovvero abitudini compulsive. Ad esempio: sedersi a guardare la TV senza conoscere i programmi, magari cambiando spesso canale.
Guardo un film già iniziato e che non mi interessa. Continuo a farlo; voglio essere intrattenuto. Vedo che c’è il ricordo, potente quanto nascosto, di una condizione che mi si presenta protetta, stabile, accogliente; il presente senza TV, invece, appare quantomeno spoglio, privo di stimoli attraenti, anche se non ci sono motivi di sgradevolezza particolare.
Avverto fatica e disagio, ma al tempo stesso resistenza a guardare più da vicino l’abitudine, così come ad abbandonarla, anche per un po’. Una parte di me sa che la condizione nella quale voglio rimanere è limitata, angusta, inappagante; in definitiva, è il contrario di quello che appare. Lo verifico, poi, nella sensazione di appesantimento e di costrizione che provo. Sono stanco, ed è una stanchezza che lascia, che non sostiene.
Fare un lavoro può stancare ma, se è fatto consapevolmente, con attenzione e con cura, la stanchezza ha una qualità diversa: è senza appesantimento e sostiene, perché il lavoro fatto così appaga. Mi sembra di ricordare che il termine Dharma derivi dalla radice dr, che significa sostenere; Dharma è qualcosa che tiene, su cui si può poggiare, che è solido e perciò, penso, ha radici profonde – come la pace di cui ho detto prima. Se è così, allora (credo) con l’espressione - Quello che doveva essere fatto è stato fatto- il Buddha esprime il raggiungimento di una piena sintonia con quello che è, momento per momento, senza un di più di fatica (di sofferenza); ancora, esprime il raggiungimento di un livello di energia e di levità (capacità di accettazione, lasciar andare) che vanno al di là della sofferenza, lasciando che questa permanga nel semplice ambito fisiologico.
Esprime insomma, per dire così, l’essere dentro la propria pelle in piena aderenza, così da non accorgersene; è in questi termini che penso alla piena disidentificazione.
Vorrei, infine, esprimere qualche considerazione complessiva derivata dal lavoro fatto finora.
Le cose positive sono molto numerose, al punto che sarebbe veramente arduo enumerare anche soltanto quelle che si presentano costantemente, a partire dalla prima: sono vivo. Poi, tra le fortune e i privilegi che in genere non considero neppure, tanto li dò per scontati e permanenti: sono in buona salute fisica e mentale, posso disporre di una casa comoda e confortevole, posso mangiare cibo di buona qualità e abbondante, ho potuto avere una istruzione superiore,...; intrattengo vari rapporti di amicizia, alcuni particolarmente affettuosi e profondi,...; percorro un cammino spirituale che apprezzo sempre di più, così come apprezzo crescentemente l’insegnante e i compagni e le compagne nel cammino,...;...
Vedo che il notare più volte queste cose o altre del genere mi insegna ad apprezzare piuttosto che a compiacermi; dunque, a essere più aperto e flessibile invece che più chiuso e rigido. Inoltre mi rende più pronto a metta, mudita, karuna; la mia capacità e la mia inclinazione al riguardo ne vengono nutrite e accresciute.
Le cose negative derivano in buona misura da abitudini e sistemi di credenze stratificate e consolidate. A volte perciò non hanno una causa chiara e questo richiede fare particolare attenzione alla mente giudicante, perché in casi del genere la sua attività è più nascosta di quando invece la causa è chiara.
Le cose negative sono molto meno numerose di quelle positive, ma per esse accade qualcosa di analogo a quello che, ho letto, viene praticato in circoli molto esclusivi per l’ammissione di un nuovo socio: un voto negativo equivale a dieci positivi. Un fatto negativo è sufficiente, a volte, a colorare di sé una intera giornata – o una vicenda – altrimenti densa di cose positive. Perciò i fatti negativi sono ottimi insegnanti, in particolare di equanimità; inoltre sono esigenti, come in genere lo sono gli insegnanti bravi. Sperimento qualcosa di analogo nel lavoro: in questo pe-riodo svolgo un lavoro di ricerca e ho modo di notare spesso che il non trovare la soluzione di un problema, oppure trovarne una insoddisfacente, è più fecondo del trovarla con facilità. Nel primo caso, probabilmente, la difficoltà induce un livello maggiore di attenzione e di cura.
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