Contemplazione e azione
(di Kittisaro)
[Traduzione di Ivan Vandor]
(Il testo di questa intervista è tratto da 'Seeing the Way', un’antologia, pubblicata ad Amaravati nel 1989, degli insegnamenti dei discepoli di lingua inglese di Ajahn Chah. Kittisaro fu ordinato monaco da Ajahn Chah nel 1977; alcuni anni fa ha lasciato l’ordine, continuando l’insegnamento del Dharma da laico) - - Qual è l’insegnamento del buddhismo sull’amore? -
Il buddhismo insegna che l’amore va capito. In genere siamo attaccati a una certa idea di amore: l’amore è che qualcosa ci piace. Abbiamo la tendenza a usare questo termine in modo molto vago; in senso buddhista, amare veramente qualcosa vuol dire permettergli di esistere, conoscerlo qual è, avere la volontà di ascoltare e stare attenti. Quando una madre ama il suo bambino è attenta ai suoi bisogni, ciò non vuol dire che questo le faccia sempre piacere, ad esempio quando grida o non dorme la notte, ma vuol dire stare con il bambino. Per la madre il bambino è semplicemente com’è. Il Buddha, secondo me, ha insegnato che la più pura forma di amore è di non contrastare o combattere qualcosa, ma di permetterle di vivere, di essere presente nella nostra consapevolezza. Allora possiamo portarle davvero attenzione.
Si può dire: "D’accordo, ma accidenti tutto questo mi sembra abbastanza freddo e non cambierà il mondo!". Tuttavia, quando si presta attenzione a qualcosa senza chiederle di essere diversa, proprio questa attenzione ha un profondo effetto trasformante. Questo è ciò che ho scoperto attraverso il mio corpo e la malattia. Per qualche ragione non sono morto, e ora sono capace perlomeno di andare in giro e incontrare gente. Per tanti anni tutto ciò che ero in grado di fare era solo stare con il mio corpo, con il disagio e il dolore così com’erano. Ma proprio permettere a tutto ciò di esistere nella mia mente così com’era, e prendermene cura, mi è stato di grande nutrimento.
Oggi nel campo della fisica non si parla più di un ‘soggetto oggettivamente osservante’ e di un ‘oggetto osservato’, bensì di ‘partecipazione’, perché il solo fatto di osservare qualcosa comincia a modificarla.
Se guardando qualcuno che ami scopri qualcosa che non ti piace e cerchi di cambiarlo, in realtà gli fai violenza e a volte questo può essere molto crudele. Il Buddha direbbe che l’odio non può mai essere placato dall’odio. L’avversione non cessa combattendola: solo con la gentilezza, non odiandola, una data situazione potrà vivere e poi svanire naturalmente. L’odio deve morire di morte naturale. Non appena cerchiamo di ucciderlo, lo moltiplichiamo e lo diffondiamo. Quando invece l’odio si estingue, rimane l’amore.
Cosa pensi di asserzioni dottrinali sull’inizio del mondo e simili questioni?
Sono soltanto speculazioni senza fine, anche se può essere divertente parlarne! Il Buddha a questo proposito fece ricorso a una similitudine: un uomo colpito da una freccia avvelenata che, prima di permettere che gli venisse estratta, volle sapere: "Chi mi colpì? Che tipo di freccia era? Da che direzione veniva?". "Se rispondo a tutte queste domande" ribatté il dottore "tu, nel frattempo, morirai".
La gente chiedeva al Buddha: "Il mondo è finito o infinito?", "Cosa succede agli esseri illuminati dopo che muoiono?", "Quale è stato l’inizio del mondo?" e molte altre domande affascinanti di questo tipo. La risposta del Buddha era: "Se cominci a parlare di queste cose, sarai già morto prima di accorgertene e avrai perso così la meravigliosa opportunità di diventare libero che avevi in quanto essere umano".
Abbiamo bisogno di essere liberi dall’ignoranza, di assaporare la libertà – libertà dall’immaginarci che siamo un corpo, libertà da ciò che ci vincola al finito. L’insegnamento del Buddha torna sempre su ciò che ci libera dall’ignoranza e dalla sofferenza. Non è utile sprecare tempo su asserzioni dottrinali, il tempo è prezioso! Togliamoci la freccia avvelenata e andiamo dritti alla radice del problema.
Qual è l’atteggiamento del buddhismo sul lavoro sociale e l’impegno? Fare cose pratiche può aiutare? Il buddhismo è completamente non pratico?
Prima di tutto penso che l’idea che le persone che si limitano alla contemplazione non abbiano nessun effetto sul mondo vada riesaminata. So che quando in monastero qualcuno è in pace, ha un effetto sugli altri, così come quando qualcuno è sempre irritabile. E poi c’è l’idea che esista un gran vuoto tra azione e contemplazione. Per tornare ancora al campo della fisica, si sta cominciando a vedere che l’atto stesso di guardare qualcosa ha un effetto enorme. Il modo in cui guardiamo le cose crea il nostro mondo, crea interamente il nostro atteggiamento. Tutta la nostra indignazione o tutto ciò che ci piace o non ci piace viene dal nostro atteggiamento.
Un approccio buddhista contemplativo tiene conto delle Quattro Nobili Verità. La Prima Nobile Verità dice: "C’è sofferenza". Di solito pensiamo: "Sto soffrendo, voglio uscirne" e ci concentriamo sulla speranza, sul desiderio di uscirne. Il dolore appare come qualcosa da cui fuggire, ma il Buddha dice che in questo modo non se ne uscirà mai. Vogliamo afferrare e tenere il piacere, ma il piacere cambia perché è una verità relativa. Il buddhismo ti porta fuori da tutto ciò per guardare, invece, direttamente il dolore e l’infelicità.
È come quando Gesù disse: "Porta la tua croce". Dobbiamo sopportare la croce, simbolo dell’arrendevolezza, piuttosto che usarne i poteri per volare su nel cielo. Ci rivolgiamo al dolore e lo guardiamo in faccia, lo sentiamo e lo analizziamo: "Che cos’è?". Notiamo come i pensieri ci dicano: "Questo è il dolore, è terribile, non ne posso più". Cominciamo a osservare la natura di questi concetti che aggiungiamo al dolore, facendolo così diventare il mio dolore, e dunque insopportabile.
Una volta che ci mettiamo a osservare il dolore, misteriosamente, esso cambia perché non è una cosa solida. Osservandolo diventiamo parte della sua trasformazione. Capendolo, sopportandolo, ci liberiamo da false nozioni su dolore e piacere. Investigandolo, già lo vediamo come qualcosa al di fuori di noi ed è allora che nasce l’imparzialità.
I buddhisti sono incoraggiati a essere aperti e vedere che cosa c’è da fare, non a guardare troppo lontano troppo presto. È facile eccitarsi per qualcosa di importante da fare, ma che succede con le cose normali come andare d’accordo con la famiglia o con i colleghi? Se non abbiamo tempo per occuparcene, il nostro sarà un fare non autentico. Possiamo parlare di armonia e di pace, ma non ci siamo ancora occupati del problema di fondo.
È con la meditazione che impariamo ad avere una corretta visione delle cose e così a imparare a fare quanto possiamo fare. In base alla nostra capacità e alla situazione in cui ci troviamo, dedichiamo la nostra vita a essere di beneficio per tutti e tutto. Come monaco buddhista, ci sono alcune cose che posso fare e altre che non posso fare: devo mangiare e vestire semplicemente, contare solo su quanto mi viene offerto. Devo imparare a essere disponibile con chiunque arrivi e sviluppare l’accettazione se sono interrotto. Questo equivale esattamente a sentirsi un piccolo ingranaggio nel cosmo.
Quando ognuno comincia a capire che cos’è il retto parlare e il retto modo di vivere, allora troverà nel proprio cuore il modo più appropriato per essere di beneficio al mondo, senza dimenticare di essere consapevole e attento. La consapevolezza porta equilibrio in ciò che facciamo: ci rende attenti a non essere guidati da una visione sbagliata delle cose.
Può darsi che sia un processo lento, ma incoraggia ognuno di noi a crescere imparando a usare la saggezza che abbiamo e ad aprirci liberandoci dall’essere occupati soltanto da questo corpo, da questa famiglia, da questo paese o da questo partito. Una mente aperta sente semplicemente la sofferenza ovunque essa sia e si sforza di alleviarla.
È proprio un crimine che nel mondo vi sia tanta sofferenza; abbiamo tanto potere, ma non siamo riusciti ancora a risolvere gran parte dei nostri problemi di base. Ma la soluzione non può trovarsi costringendo gli altri a fare qualcosa, bensì prestando loro attenzione e facendo ciò che possiamo.
Bisogna davvero capire se stessi prima di poter aiutare gli altri?
Posta in questi termini, la domanda suona come se prima si dovesse capire se stessi e solo dopo, quando si è diventati un Buddha, si potesse aiutare la gente, e prima di allora non si potesse fare niente. Ma in realtà le cose non stanno così: questi due aspetti funzionano insieme, sempre. Nel mio caso, quando ero in Thailandia, mi sentivo davvero bene a essere di aiuto nel monastero al mio maestro, agli altri monaci per fare yoga, sempre correndo qua e là per essere di ‘aiuto’. Poi, quando mi ammalai e non potei più fare niente, divenni totalmente incapace di stare in pace con le cose. Non c’era vera saggezza. Gran parte delle mie azioni erano dovute alla disperazione che inquinava veramente parte di quello che facevo.
Ecco perché nel buddhismo parliamo sempre di equilibrio e dell’importanza di avere regolarmente tempo per ricercare una vera calma. Quanto tempo poi passare in questo stato di calma – stare seduti e fermi – dipende da ciascuno: un minuto o solo cinque minuti è già utile. Possiamo notare la pressione di quello che pensiamo di dover fare, il senso di colpa che viene dal pensare di essere egoisti, o qualsiasi altra cosa del genere. Mettere questi sentimenti in prospettiva, vedere che cos’è che ci fa sempre correre qua e là, ci mette in una posizione migliore per capire la vita. Se aspettassimo di essere perfettamente illuminati ci sarebbe sempre il dubbio di non essere ancora pronti.
Se sorge il pensiero: "Sono pronto?", lo vedo quale pensiero, proprio qui e ora. Se viene mentre medito, vedo che ha un inizio... "Sono già pronto?"... e una fine, e noto che quando svanisce, c’è pace nella mia mente. Se vedo che il pensiero è soltanto un pensiero che viene e va, lo tratterò come uno stato mutevole della mente: non ne faccio più un problema. Non debbo più aspettare il momento in cui non ci saranno più pensieri che comportano il dubbio. Mi basta sapere che è un pensiero di dubbio, e a questo punto potrò fare e offrire ciò di cui sono capace. Questo produce pazienza ed equanimità ed è ciò che possiamo fare in un senso immediato.
Quante volte, quando ci sorpassano per strada troppo velocemente, profferiamo una serie di volgarità? Perciò cominciamo dalle piccole cose. Il Buddha cominciò proprio da quelle: "Siate onesti – disse – arrampicatevi sull’albero a partire dalla base, non saltate nel nibbana, non saltate in Dio. Imparate prima a essere pazienti con ciò che sta già succedendo, come un mal di testa". Quindi la consapevolezza è qualcosa che si costruisce proprio in questo stesso momento.
Cosa provi a confrontarti con il mondo della tecnologia e apportarvi i necessari cambiamenti?
Debbo dire che non mi piace fare asserzioni su ciò che i ‘buddhisti’ pensano e sentono. Sono veramente utili? Nel buddhismo tutto l’insegnamento riguarda la strada che porta al Risveglio. Ognuno vede questa sala da una prospettiva diversa, quindi dire ad altri quello che dovrebbero vedere o fare è per me davvero impossibile.
Ho la sensazione che oggi abbiamo un enorme potere di manipolare le cose, siamo capaci di creare ogni sorta di cose attraverso la scienza e cominciamo a capire alcune leggi riguardanti il funzionamento della materia – quella che noi chiamiamo ‘l’aggregazione delle forme’. Abbiamo un grande potere di modificare le cose, di spostarle, di scavare la terra, di mandare gente sulla luna, di far saltare il pianeta. Abbiamo un’enorme capacità di produrre. Tutto è incentrato sulla produttività.
Ora l’impulso religioso capisce che ci siamo spinti troppo in là nel manipolare le cose per renderle come le vogliamo. Si pensa che grazie a questa magnifica scienza, sradicando un numero sufficiente di mali, non avremo più dolore e problemi, e allora saremo felici. Ma questo è solo un punto di vista materialista estremo. Da questo estremo vediamo la vita solo come potrebbe essere, attraverso concetti. C’è un enorme potere nel desiderio di creare. Ma il desiderio di modificare le cose come vogliamo può diventare anche molto crudele. Sebbene abbiamo questo potere, siamo progrediti ben poco nella capacità di andare d’accordo tra noi, stiamo ancora combattendo, creando separazione e incomprensione.
L’istinto religioso ci dice come apprezzare le cose, ci parla di aprire il cuore. Quando eravamo bambini e andavamo sulla spiaggia, guardavamo la vastità di fronte a noi con occhi spalancati. Il vento, le migliaia di onde, il muggito del mare... La mente non poteva manipolare tale immensità. Così, quando la mente è aperta, ci limitiamo ad ascoltare e osservare. E in questo stato di meraviglia, di stupore, di comunione, stiamo davvero apprezzando profondamente. Questo è lo stato dell’amore, lo stato in cui si sta veramente con qualcosa quale essa è, orribile o piacevole. Ed è in tale stato che diventiamo parte del tutto, che siamo collegati al tutto.
Ma anche questo può diventare un estremo! Come riusciremo a fare tutto ciò che c’è da fare se restiamo in uno stato di perenne stupore? Quindi si tratta di non stare né a un estremo né all’altro.
Non c’è nulla di bene o di male circa la medicina moderna o la tecnologia nucleare, ma spesso la mente umana che le utilizza si è separata dalla realtà. Così, invece di fare asserzioni su ciò che la gente dovrebbe fare, incoraggerei ognuno ad aprirsi alla vita. E poi incominciamo a vedere come ci sentiamo davvero nei riguardi del dolore, del "non mi piace". Quando nasce la compassione diventiamo capaci di soffrire con gli altri; vibriamo veramente con loro. Capiamo appieno che stanno soffrendo e allora non siamo più spinti a fare cose che fanno male. Ma se ci si limita a dire a qualcuno: "Non fare questo", "Sii compassionevole", questo è adoperare la forza. Si può far sì che la gente si comporti come vogliamo, ma in tal caso ci sarà sempre avijja, l’ignoranza. Il Buddha insegnò che l’origine di tutto il problema è l’ignoranza. Da questa consapevolezza nasce con naturalezza la compassione, la capacità di essere uno col tutto.
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