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SCHEDA ARTICOLO N. «00604»

CLASSIFICAZIONE: 2
TIPOLOGIA: BUDDISMO
AUTORE: KITTISARO
TITOLO: CONTEMPLAZIONE ED AZIONE (MONOGRAFIA LUNGA)
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TESTO ARTICOLO

Contemplazione e azione

(di Kittisaro)

[Traduzione di Ivan Vandor]

(Il testo di questa intervista è tratto da 'Seeing the Way',
un’antologia, pubblicata ad Amaravati nel 1989, degli insegnamenti dei
discepoli di lingua inglese di Ajahn Chah. Kittisaro fu ordinato
monaco da Ajahn Chah nel 1977; alcuni anni fa ha lasciato l’ordine,
continuando l’insegnamento del Dharma da laico)
-
- Qual è l’insegnamento del buddhismo sull’amore? -


Il buddhismo insegna che l’amore va capito. In genere siamo attaccati
a una certa idea di amore: l’amore è che qualcosa ci piace. Abbiamo la
tendenza a usare questo termine in modo molto vago; in senso
buddhista, amare veramente qualcosa vuol dire permettergli di
esistere, conoscerlo qual è, avere la volontà di ascoltare e stare
attenti. Quando una madre ama il suo bambino è attenta ai suoi
bisogni, ciò non vuol dire che questo le faccia sempre piacere, ad
esempio quando grida o non dorme la notte, ma vuol dire stare con il
bambino. Per la madre il bambino è semplicemente com’è. Il Buddha,
secondo me, ha insegnato che la più pura forma di amore è di non
contrastare o combattere qualcosa, ma di permetterle di vivere, di
essere presente nella nostra consapevolezza. Allora possiamo portarle
davvero attenzione.

Si può dire: "D’accordo, ma accidenti tutto questo mi sembra
abbastanza freddo e non cambierà il mondo!". Tuttavia, quando si
presta attenzione a qualcosa senza chiederle di essere diversa,
proprio questa attenzione ha un profondo effetto trasformante. Questo
è ciò che ho scoperto attraverso il mio corpo e la malattia. Per
qualche ragione non sono morto, e ora sono capace perlomeno di andare
in giro e incontrare gente. Per tanti anni tutto ciò che ero in grado
di fare era solo stare con il mio corpo, con il disagio e il dolore
così com’erano. Ma proprio permettere a tutto ciò di esistere nella
mia mente così com’era, e prendermene cura, mi è stato di grande
nutrimento.

Oggi nel campo della fisica non si parla più di un ‘soggetto
oggettivamente osservante’ e di un ‘oggetto osservato’, bensì di
‘partecipazione’, perché il solo fatto di osservare qualcosa comincia
a modificarla.

Se guardando qualcuno che ami scopri qualcosa che non ti piace e
cerchi di cambiarlo, in realtà gli fai violenza e a volte questo può
essere molto crudele. Il Buddha direbbe che l’odio non può mai essere
placato dall’odio. L’avversione non cessa combattendola: solo con la
gentilezza, non odiandola, una data situazione potrà vivere e poi
svanire naturalmente. L’odio deve morire di morte naturale. Non appena
cerchiamo di ucciderlo, lo moltiplichiamo e lo diffondiamo. Quando
invece l’odio si estingue, rimane l’amore.

Cosa pensi di asserzioni dottrinali sull’inizio del mondo e simili questioni?

Sono soltanto speculazioni senza fine, anche se può essere divertente
parlarne! Il Buddha a questo proposito fece ricorso a una
similitudine: un uomo colpito da una freccia avvelenata che, prima di
permettere che gli venisse estratta, volle sapere: "Chi mi colpì? Che
tipo di freccia era? Da che direzione veniva?". "Se rispondo a tutte
queste domande" ribatté il dottore "tu, nel frattempo, morirai".

La gente chiedeva al Buddha: "Il mondo è finito o infinito?", "Cosa
succede agli esseri illuminati dopo che muoiono?", "Quale è stato
l’inizio del mondo?" e molte altre domande affascinanti di questo
tipo. La risposta del Buddha era: "Se cominci a parlare di queste
cose, sarai già morto prima di accorgertene e avrai perso così la
meravigliosa opportunità di diventare libero che avevi in quanto
essere umano".

Abbiamo bisogno di essere liberi dall’ignoranza, di assaporare la
libertà – libertà dall’immaginarci che siamo un corpo, libertà da ciò
che ci vincola al finito. L’insegnamento del Buddha torna sempre su
ciò che ci libera dall’ignoranza e dalla sofferenza. Non è utile
sprecare tempo su asserzioni dottrinali, il tempo è prezioso!
Togliamoci la freccia avvelenata e andiamo dritti alla radice del
problema.

Qual è l’atteggiamento del buddhismo sul lavoro sociale e l’impegno?
Fare cose pratiche può aiutare? Il buddhismo è completamente non
pratico?

Prima di tutto penso che l’idea che le persone che si limitano alla
contemplazione non abbiano nessun effetto sul mondo vada riesaminata.
So che quando in monastero qualcuno è in pace, ha un effetto sugli
altri, così come quando qualcuno è sempre irritabile. E poi c’è l’idea
che esista un gran vuoto tra azione e contemplazione. Per tornare
ancora al campo della fisica, si sta cominciando a vedere che l’atto
stesso di guardare qualcosa ha un effetto enorme. Il modo in cui
guardiamo le cose crea il nostro mondo, crea interamente il nostro
atteggiamento. Tutta la nostra indignazione o tutto ciò che ci piace o
non ci piace viene dal nostro atteggiamento.

Un approccio buddhista contemplativo tiene conto delle Quattro Nobili
Verità. La Prima Nobile Verità dice: "C’è sofferenza". Di solito
pensiamo: "Sto soffrendo, voglio uscirne" e ci concentriamo sulla
speranza, sul desiderio di uscirne. Il dolore appare come qualcosa da
cui fuggire, ma il Buddha dice che in questo modo non se ne uscirà
mai. Vogliamo afferrare e tenere il piacere, ma il piacere cambia
perché è una verità relativa. Il buddhismo ti porta fuori da tutto ciò
per guardare, invece, direttamente il dolore e l’infelicità.

È come quando Gesù disse: "Porta la tua croce". Dobbiamo sopportare la
croce, simbolo dell’arrendevolezza, piuttosto che usarne i poteri per
volare su nel cielo. Ci rivolgiamo al dolore e lo guardiamo in faccia,
lo sentiamo e lo analizziamo: "Che cos’è?". Notiamo come i pensieri ci
dicano: "Questo è il dolore, è terribile, non ne posso più".
Cominciamo a osservare la natura di questi concetti che aggiungiamo al
dolore, facendolo così diventare il mio dolore, e dunque
insopportabile.

Una volta che ci mettiamo a osservare il dolore, misteriosamente, esso
cambia perché non è una cosa solida. Osservandolo diventiamo parte
della sua trasformazione. Capendolo, sopportandolo, ci liberiamo da
false nozioni su dolore e piacere. Investigandolo, già lo vediamo come
qualcosa al di fuori di noi ed è allora che nasce l’imparzialità.

I buddhisti sono incoraggiati a essere aperti e vedere che cosa c’è da
fare, non a guardare troppo lontano troppo presto. È facile eccitarsi
per qualcosa di importante da fare, ma che succede con le cose normali
come andare d’accordo con la famiglia o con i colleghi? Se non abbiamo
tempo per occuparcene, il nostro sarà un fare non autentico. Possiamo
parlare di armonia e di pace, ma non ci siamo ancora occupati del
problema di fondo.

È con la meditazione che impariamo ad avere una corretta visione delle
cose e così a imparare a fare quanto possiamo fare. In base alla
nostra capacità e alla situazione in cui ci troviamo, dedichiamo la
nostra vita a essere di beneficio per tutti e tutto. Come monaco
buddhista, ci sono alcune cose che posso fare e altre che non posso
fare: devo mangiare e vestire semplicemente, contare solo su quanto mi
viene offerto. Devo imparare a essere disponibile con chiunque arrivi
e sviluppare l’accettazione se sono interrotto. Questo equivale
esattamente a sentirsi un piccolo ingranaggio nel cosmo.

Quando ognuno comincia a capire che cos’è il retto parlare e il retto
modo di vivere, allora troverà nel proprio cuore il modo più
appropriato per essere di beneficio al mondo, senza dimenticare di
essere consapevole e attento. La consapevolezza porta equilibrio in
ciò che facciamo: ci rende attenti a non essere guidati da una visione
sbagliata delle cose.

Può darsi che sia un processo lento, ma incoraggia ognuno di noi a
crescere imparando a usare la saggezza che abbiamo e ad aprirci
liberandoci dall’essere occupati soltanto da questo corpo, da questa
famiglia, da questo paese o da questo partito. Una mente aperta sente
semplicemente la sofferenza ovunque essa sia e si sforza di
alleviarla.

È proprio un crimine che nel mondo vi sia tanta sofferenza; abbiamo
tanto potere, ma non siamo riusciti ancora a risolvere gran parte dei
nostri problemi di base. Ma la soluzione non può trovarsi costringendo
gli altri a fare qualcosa, bensì prestando loro attenzione e facendo
ciò che possiamo.

Bisogna davvero capire se stessi prima di poter aiutare gli altri?

Posta in questi termini, la domanda suona come se prima si dovesse
capire se stessi e solo dopo, quando si è diventati un Buddha, si
potesse aiutare la gente, e prima di allora non si potesse fare
niente. Ma in realtà le cose non stanno così: questi due aspetti
funzionano insieme, sempre. Nel mio caso, quando ero in Thailandia, mi
sentivo davvero bene a essere di aiuto nel monastero al mio maestro,
agli altri monaci per fare yoga, sempre correndo qua e là per essere
di ‘aiuto’. Poi, quando mi ammalai e non potei più fare niente,
divenni totalmente incapace di stare in pace con le cose. Non c’era
vera saggezza. Gran parte delle mie azioni erano dovute alla
disperazione che inquinava veramente parte di quello che facevo.

Ecco perché nel buddhismo parliamo sempre di equilibrio e
dell’importanza di avere regolarmente tempo per ricercare una vera
calma. Quanto tempo poi passare in questo stato di calma – stare
seduti e fermi – dipende da ciascuno: un minuto o solo cinque minuti è
già utile. Possiamo notare la pressione di quello che pensiamo di
dover fare, il senso di colpa che viene dal pensare di essere egoisti,
o qualsiasi altra cosa del genere. Mettere questi sentimenti in
prospettiva, vedere che cos’è che ci fa sempre correre qua e là, ci
mette in una posizione migliore per capire la vita. Se aspettassimo di
essere perfettamente illuminati ci sarebbe sempre il dubbio di non
essere ancora pronti.

Se sorge il pensiero: "Sono pronto?", lo vedo quale pensiero, proprio
qui e ora. Se viene mentre medito, vedo che ha un inizio... "Sono già
pronto?"... e una fine, e noto che quando svanisce, c’è pace nella mia
mente. Se vedo che il pensiero è soltanto un pensiero che viene e va,
lo tratterò come uno stato mutevole della mente: non ne faccio più un
problema. Non debbo più aspettare il momento in cui non ci saranno più
pensieri che comportano il dubbio. Mi basta sapere che è un pensiero
di dubbio, e a questo punto potrò fare e offrire ciò di cui sono
capace. Questo produce pazienza ed equanimità ed è ciò che possiamo
fare in un senso immediato.

Quante volte, quando ci sorpassano per strada troppo velocemente,
profferiamo una serie di volgarità? Perciò cominciamo dalle piccole
cose. Il Buddha cominciò proprio da quelle: "Siate onesti – disse –
arrampicatevi sull’albero a partire dalla base, non saltate nel
nibbana, non saltate in Dio. Imparate prima a essere pazienti con ciò
che sta già succedendo, come un mal di testa". Quindi la
consapevolezza è qualcosa che si costruisce proprio in questo stesso
momento.

Cosa provi a confrontarti con il mondo della tecnologia e apportarvi i
necessari cambiamenti?

Debbo dire che non mi piace fare asserzioni su ciò che i ‘buddhisti’
pensano e sentono. Sono veramente utili? Nel buddhismo tutto
l’insegnamento riguarda la strada che porta al Risveglio. Ognuno vede
questa sala da una prospettiva diversa, quindi dire ad altri quello
che dovrebbero vedere o fare è per me davvero impossibile.

Ho la sensazione che oggi abbiamo un enorme potere di manipolare le
cose, siamo capaci di creare ogni sorta di cose attraverso la scienza
e cominciamo a capire alcune leggi riguardanti il funzionamento della
materia – quella che noi chiamiamo ‘l’aggregazione delle forme’.
Abbiamo un grande potere di modificare le cose, di spostarle, di
scavare la terra, di mandare gente sulla luna, di far saltare il
pianeta. Abbiamo un’enorme capacità di produrre. Tutto è incentrato
sulla produttività.

Ora l’impulso religioso capisce che ci siamo spinti troppo in là nel
manipolare le cose per renderle come le vogliamo. Si pensa che grazie
a questa magnifica scienza, sradicando un numero sufficiente di mali,
non avremo più dolore e problemi, e allora saremo felici. Ma questo è
solo un punto di vista materialista estremo. Da questo estremo vediamo
la vita solo come potrebbe essere, attraverso concetti. C’è un enorme
potere nel desiderio di creare. Ma il desiderio di modificare le cose
come vogliamo può diventare anche molto crudele. Sebbene abbiamo
questo potere, siamo progrediti ben poco nella capacità di andare
d’accordo tra noi, stiamo ancora combattendo, creando separazione e
incomprensione.

L’istinto religioso ci dice come apprezzare le cose, ci parla di
aprire il cuore. Quando eravamo bambini e andavamo sulla spiaggia,
guardavamo la vastità di fronte a noi con occhi spalancati. Il vento,
le migliaia di onde, il muggito del mare... La mente non poteva
manipolare tale immensità. Così, quando la mente è aperta, ci
limitiamo ad ascoltare e osservare. E in questo stato di meraviglia,
di stupore, di comunione, stiamo davvero apprezzando profondamente.
Questo è lo stato dell’amore, lo stato in cui si sta veramente con
qualcosa quale essa è, orribile o piacevole. Ed è in tale stato che
diventiamo parte del tutto, che siamo collegati al tutto.

Ma anche questo può diventare un estremo! Come riusciremo a fare tutto
ciò che c’è da fare se restiamo in uno stato di perenne stupore?
Quindi si tratta di non stare né a un estremo né all’altro.

Non c’è nulla di bene o di male circa la medicina moderna o la
tecnologia nucleare, ma spesso la mente umana che le utilizza si è
separata dalla realtà. Così, invece di fare asserzioni su ciò che la
gente dovrebbe fare, incoraggerei ognuno ad aprirsi alla vita. E poi
incominciamo a vedere come ci sentiamo davvero nei riguardi del
dolore, del "non mi piace". Quando nasce la compassione diventiamo
capaci di soffrire con gli altri; vibriamo veramente con loro. Capiamo
appieno che stanno soffrendo e allora non siamo più spinti a fare cose
che fanno male. Ma se ci si limita a dire a qualcuno: "Non fare
questo", "Sii compassionevole", questo è adoperare la forza. Si può
far sì che la gente si comporti come vogliamo, ma in tal caso ci sarà
sempre avijja, l’ignoranza. Il Buddha insegnò che l’origine di tutto
il problema è l’ignoranza. Da questa consapevolezza nasce con
naturalezza la compassione, la capacità di essere uno col tutto.

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