Metta (gentilezza amorevole) in metropolitana
(di Laura Bonacci)
Verso sera esco da una stazione della metropolitana.
Diversamente dalle altre, questa è sempre poco affollata e questa sera è quasi deserta. L'uscita è lunga: una rampa di scale e un tratto piano, poi due rampe di scale mobili di cui la seconda molto ripida e fra l'una e l'altra un ripiano.
Una donna davanti a me.
Saliamo e termina la prima rampa.
Mi accorgo che la donna, che mi precede, ha un passo stanco, stanchissimo e vedo che dalla sua mano sinistra ciondola un tamburello.
Una suonatrice penso, una di quelli che cercano di guadagnare il loro pane quotidiano suonando sui treni, da un treno all'altro, da un vagone all'altro.
Non può essere sola, non basta un tamburello; di solito lavorano in coppia o in tre, con un bambino.
Lancio lo sguardo più avanti e più avanti infatti cammina un uomo che tiene in braccio una fisarmonica vecchia e in pessimo stato e accanto a lui un bambino sui sette anni, allegro, con un tamburello in mano. Una famiglia.
L'allegria del bambino mi procura una sensazione di sollievo: è gioioso, dunque amato e ben tenuto.
Torno sulla donna. Sento su di me la sua pesante stanchezza, provo compassione e fluisce metta.
Non è la metta di intenzione diretta agli sconosciuti che incontro sulla mia strada, esercizio che pratico con assiduità, salvo fasi di chiusura a volte ermetica, in cui non posso fare altro che osservare; questa non deriva da un atto di volontà, questa è un movimento che viene da sé, è sensazione di spazio e di tepore.
Inizia la seconda rampa.
La donna è sempre avanti a me qualche gradino più su, e né fra noi né dietro di me c'è qualcuno.
Metta. Metta.
La donna all'improvviso si gira e mi sorride. È un sorriso ampio, caldo, luminoso.
Mi sorride come ho sorriso a volte io incontrando inaspettatamente un volto caro tra la folla lontano dai luoghi consueti.
Si siede la donna su un gradino della scala mobile; è del tutto rivolta verso di me e continua a sorridermi e anche il mio volto intanto si è aperto spontaneamente al sorriso; sì, il volto, perché sento che non sono solo le labbra a dischiudersi ma tutta la faccia.
Mi fa ripetutamente cenno di sedermi lì, accanto a lei.
Ecco che succede qualcosa di estremamente rapido che tuttavia riesco a cogliere.
Si attua una divisione in me.
Qualcosa che non si vuole mischiare, vuole riprendere le distanze; e a gesti, con delicatezza, faccio capire che sto bene così, mentre qualcosa d'altro (un soffio? Un desiderio? Un’energia?), non so che, vola a sedersi accanto a lei.
Siamo arrivate. Usciamo.
|